venerdì 31 dicembre 2010

Ma Loro non hanno festeggiato


Proprio no. Non credo che Loro abbiano festeggiato.
Gli Alpini tutti, ma soprattutto i Familiari, i Genitori dell'Alpino morto in Afghanistan, l'ultimo nostro soldato Che ha perso la vita servendo il nostro paese.
Doppiamente sfortunato il nostro Alpino, dico nostro perchè è di tutti noi, o almeno così dovrebbe essere; doppiamente sfortunato perchè prima di tutto ha perso la vita, anche se a scuola ci avevano insegnato che dulce et decorum est pro patria mori, ma i tempi sono cambiati così come la lingua, ma ancor più sfortunato perchè quella Sua vita, quasi appena iniziata, ancora quasi non vissuta, l'ha persa proprio in questi giorni di festa, quando tutti pensano a divertirsi, a festeggiare il Natale e ancor più il Capodanno, tra veglioni, botti, fuochi d'artificio, cenoni, auguri sciocchi e di maniera, abiti firmati da indossare la notte di San Silvestro, mutande rosse e altro che non voglio nominare per decenza.
E in mezzo a tali festeggiamenti preparati da tempo, non c'è tempo per fermarsi, per riflettere, per un attimo di silenzio e di dolore.
Non c'è tempo per pensare, per accorgersi che non c'è nulla, proprio nulla da festeggiare, quando un nostro soldato, in un paese lontano ha perso la vita, è morto lontano da casa, per noi, anche per noi.
Eppure questa notte, dal letto ove mi ero rifugiato, cercando di proteggere e rassicurare i miei animali terrorizzati, ho sentito gli stessi botti, il rumore degli stessi razzi, degli stessi fuochi d'artificio, le stesse urla della gente in strada e ho immaginato gli stessi rumori dei tappi di spumante che saltavano e il tintinnare delle coppe nel rituale sempre presente del cin cin di mezzanotte e oltre.
Avevo sperato, mi ero illuso di non sentirli.
Avevo sperato che il dolore, la costernazione il raccoglimento, la vicinanza ideale con i familiari del giovane Alpino caduto, avrebbe frenato e trattenuto i festeggiamenti, anche se da tempo preparati, per mostrare la solidarietà di tutti noi verso Chi certamente non ha festeggiato, non ha stappato lo spumante, non ha mangiato il panettone, non ha brindato al nuovo anno.
E penso anche ad un'altra casa, quella di Yara, ove i suoi genitori non hanno certo festeggiato l'inizio del nuovo anno, senza la Loro figlia.
E invece il mio sogno di solidarietà non si è realizzato e tutto è rimasto pedissequamente eguale agli anni trascorsi.
Soliti botti, soliti feriti, mi sembra anche due morti, uno morto per proiettili vaganti, un altro gettatosi dalla finestra della casa in fiamme, soliti ustionati, solite raccomandazioni del giorno dopo per i petardi inesplosi.
A Roma si è svolto regolarmente il concerto di Baglioni con grande affluenza di pubblico festante e così allo stesso modo è avvenuto per gli altri concerti nelle altre città.
A Venezia il tredizionale bacio collettivo in piazza San Marco e nella capitale il solito tuffo nel Tevere. Tutto secondo copione.
Anche a Napoli, sepolta dalla mondezza, si è festeggiato e si sono sparati i botti, nonostante le raccomandazioni alla ragionevolezza e ad evitare manifestazioni pirotecniche che avrebbero potuto incendiare la spazzatura.
Ma il maggiore sconcerto, il maggiore stupore, il maggiore dolore, la maggiore indignazione l'ho provata questa mattina quando, appena levatomi dal letto, come al solito ho ascoltato il primo giornaleradio, quello delle 5 e naturalmente anche i successivi per avere una conferma, purtroppo, ma che speravo caldamente di non avere.
Mi sembrava di aver capito e mi sembrerebbe logico, che la prima notizia riferita fosse quella più importante e via via a seguire, le altre in ordine decrescente di importanza, almeno così procederei io.
E così forse è stato, secondo la logica di chi stabilisce la priorità delle notizie da comunicare.
E la prima notizia, quella più importante riguardava, ahimè, proprio le modalità dei festeggiamenti per il capodanno secondo come si sono svolti nelle varie città con priorità assoluta per Napoli e dintorni.
A seguire il bollettino di guerra di feriti, ustionati e morti, caduti sul fronte dei festeggiamenti e, impossibile a mancare, uno sguardo panoramico sul Capodanno nel mondo, con privilegio per le capitali europee.
Immediatamente a seguire il messaggio alla nazione del Presidente della Repubblica a reti unificate, con lunga lista delle reazioni, una tantum uniformemente concordi, dei nostri politici che hanno tutti espresso il loro grande apprezzamento per il messaggio.
Ancora dopo, la notizia del rifiuto da parte del Brasile alla estradizione del delinquente comune, pseudoterrorista, Cesare Battisti e solo successivamente a questa, la notizia e poche parole di commento sulla morte del nostro Alpino in Afghanistan.
Lo stesso schema è stato seguito, più o meno dal telegiornale di Rai 2 che ha preceduto il Concerto di Capodanno da Vienna.
Sinceramente mi sarei aspettato qualcosa di diverso. Mi sarei aspettato maggior rispetto nei confronti di un giovane di ventiquattro anni morto in Afghanistan per compiere il proprio dovere, mi sarei aspettato una maggiore solidarietà, spontanea, corale per i genitori e i familiari di questo Ragazzo, mi sarei aspettato una diserzione dolorosa e volontaria dai festeggiamenti programmati, in segno di lutto, per questa vita finita.
Invece nulla di tutto ciò.
Era un sogno, ma i sogni spesso non si realizzano.
Ma poi mi chiedo, in un attimo di resipiscenza, come avessi potuto ingenuamente coltivare questo sogno, se lo stesso Presidente della Repubblica, nel suo sopracitato discorso di fine anno alla nazione, trasmesso a reti unificate e che ha avuto, ironia del destino, come argomento precipuo e principale proprio i giovani, le loro aspettative deluse, la nostra responsabilità verso di loro, la loro importanza per il futuro del nostro paese, non ha fatto argomento principale del suo sermone, la morte per la Patria del nostro Alpino.
Forse non era Questi un giovane come tutti gli altri, con pari dignità e meritevole di pari attenzione?
Forse l'Italia tutta non avrebbe dovuto essere in lutto, per non rovinare i festeggiamenti di fine anno?
O forse era troppo tardi, per modificare un discorso già scritto da tempo e magari addirittura improvvisarlo, sulla scia della emozione e dei sentimenti del momento?
Ne è risultato il solito sermone, analogo a quello di tutti gli anni precedenti e anche dei suoi predecessori, che ha suscitato il plauso e il consenso di maniera di tutti i politici, anche di opposte fazioni, perchè sarebbe stato impossibile non essere d'accordo con ovvietà scontate e sempre ripetute, con verità lapalissiane, con moniti ed esortazioni, evidenti quanto inutili, con raccomandazioni alla buona volontà e a fare meglio che tutti, nessuno escluso potrebbe non sottoscrivere.
Il solito scontato copione.
Ma questa volta c'era qualcosa in più, c'era la morte di un giovane soldato di ventiquattro anni che ha perso la vita per la Patria, per tutti noi.
Sinceramente dal Presidente della Repubblica ci saremmo attesi qualcosa di più.
Signor Presidente della Repubblica, non conta nulla, ma non sei il mio Presidente.
Addio caro Alpino, Ti perdoniamo, a causa della Tua giovane età, di aver disturbato, scegliendo di morire proprio ora, i nostri festeggiamenti di capodanno.
Domenico Mazzullo
d.mazzullo@tiscali.it
www.studiomazzullo.com

giovedì 30 dicembre 2010

Capodanno



Capodanno

La signora Eunice da anni viveva sola, non rammentava nemmeno lei da quanti anni ciò accadesse.
Ricordava solo che la sua solitudine era iniziata da quando una volta aveva discusso animatamente, non sapeva neppure più perché, con la sua unica sorella, unica parente vivente e questa abbandonandola, vivevano assieme, le aveva detto:
“ Non ti sopporto più. Sei una egoista fredda e crudele. Meriti di vivere sola”
Ed Eunice si era adattata, abituata rapidamente alla sua solitudine, trovandola anche gradevole, permettendole questa di disporre a piacimento del proprio tempo e della propria libertà.
Eunice sapeva che la notte del 31 di dicembre, l’ultimo giorno dell’anno, la tradizione vuole che si saluti l’anno vecchio che va via, gettando dalla finestra una cosa vecchia, inutile, di cui non abbiamo più bisogno e di cui vogliamo disfarci.
Quest’anno Eunice aveva deciso di rispettare la tradizione e si mise alla ricerca di quel “qualcosa”, certa di trovarlo facilmente.
Pensò alla vecchia caffettiera “napoletana” che non usava più da tempo, da quando aveva acquistato una più comoda e più rapida caffettiera elettrica, ma ancora funzionava perfettamente e poi in fondo le era affezionata.
Pensò anche ad una vecchia stufetta elettrica, che le aveva riscaldato i piedi nei freddi inverni, ora sostituita da un più efficace calorifero, ma la stufetta le ricordava Temistocle, il vecchio gatto, ormai morto da anni, che si accoccolava ai suoi piedi, forse per affetto verso di lei, o forse per il calore che emanava dalla stufetta.
Pensò anche ad una vecchia cornice tarlata ed ormai inservibile, senza più nulla dentro.
Ma aveva contenuto il ritratto della sua mamma da anni defunta e le sarebbe sembrato blasfemo ed irriverente disfarsene.
Eunice cominciava ad essere preoccupata; la mezzanotte si avvicinava a grandi passi e per quanto si aggirasse per casa, non riusciva a trovare nulla, proprio nulla che fosse vecchio, inutile, inservibile, non legato ad alcuna affetto, o ricordo e di cui disfarsi.
Intanto la vecchia pendola che dominava una parete del salotto buono, cominciava a battere i dodici rintocchi della mezzanotte.
Eunice ebbe una idea improvvisa e meravigliosa, finalmente aveva trovato la cosa inutile di cui disfarsi.
Aprì la finestra di colpo…..e si lasciò cadere giù dolcemente.

Domenico Mazzullo

mercoledì 15 dicembre 2010

Impariamo da Loro

Quando ero bambino rimasi molto impressionato da un film rigorosamente in bianco e nero dati i tempi, "La tragedia del Titanic"e ne ricordo con emozione e raccapriccio le immagini, ma una soprattutto è rimasta impressa nella mia mente infantile, quella del comandante che
rifiutando di mettersi in salvo in una scialuppa, rimane sul ponte di comando, mentre la nave affonda e viene inghiottita dai flutti.
Al termine del film mio padre mi spiegò che si usa così, anche se non è una legge scritta.
Il comandante non abbandona mai la nave che affonda, ma si inabissa con lei, quasi fosse una persona cara, sopra le altre, che non può essere lasciata sola mentre muore.
L'immagine, la spiegazione mi fece una grande, grandissima impressione, ma ricordo, ne compresi bene il significato ed il sentimento in essa racchiuso.
La nave, con la quale affrontiamo tante avventure, con la quale corriamo, assieme tanti pericoli, la nave alla quale ci lega un sentimento di affetto profondo ed inalienabile, non può essere lasciata sola nel momento in cui affonda, nel momento in cui muore e il suo comandante deve affondare, deve morire con lei rimanendole vicino.
Ma ora i tempi sono cambiati, certi sentimenti non fanno più parte di noi, non ci appartengono più, sono fuori moda e desueti, anacronistici e quasi patetici, ma per fortuna a ricordare a noi esseri orgogliosamente umani, che esistono ancora, che da qualche parte ancora ci sono, che sono sopravvissuti alla distruzione da noi provocata, ci sono gli animali che con la loro semplicità con la loro spontaneità, con la loro istintualità, non contaminata e distrutta dal "progresso", come per noi è avvenuto, ci forniscono un esempio e un monito una memoria, forse anche un rimprovero, se ancora siamo in grado di comprenderne il significato.
L'ultimo è di pochi giorni addietro e ci proviene da un cane, guarda caso, di nome Athos, uno dei tre moschettieri.
Tutti abbiamo seguito in ansia le vicende della nave mercantile Jolli Amaranto con i motori in avaria, per giorni in balia del mare in tempesta, senza la possibilità di essere soccorsa, per le avverse ed insostenibili condizioni del mare.
Per fortuna la vicenda si è conclusa felicemente, almeno in parte, la nave è stata raggiunta da un rimorchiatore, rimorchiata in porto, ma si è incagliata in prossimità di questo ed è stato necessario abbandonarla.
L'equipaggio è sano e salvo al completo, no mi correggo, meno un membro di esso, appunto il cane Athos, che faceva parte integrante dell'equipaggio della nave stessa anzi ne era il membro più fedele e indispensabile, non abbandonando mai la nave, nemmen nei porti, a differenza naturalmente degli altri membri. E Athos non ha voluto abbandonare la sua nave neppure questa ultima volta, quando l'ha vista in difficoltà estrema, fedele alla consegna ed anche all'affetto.
Quando, come dicevo prima, la nave è stata abbandonata dal suo equipaggio al completo, che si è trasferito in sicurezza sul rimorchiatore, Athos naturalmente, è stato messo in salvo anche lui, ma non resistendo al dolore di allontanarsi, di separarsi dalla sua nave, sfuggendo all'abbraccio di chi lo teneva con sè, si è gettato in mare cercando di raggiungere a nuoto la sua nave, la sua casa, nuotando contro corrente verso di lei, ma l'onda sollevata dalle eliche del rimorchiatore lo ha tradito facendolo sparire all'improvviso sott'acqua.
A nulla è valso il coraggioso eroismo di un marinaio che si è tuffato in mare per salvarlo.
Athos era sparito, risucchiato dall'acqua.
Non potendo abbandonare a se stessa, non potendo lasciare sola la sua nave che è sempre stata la sua casa Athos ha perso la vita.
Mi rimane solo un dubbio: Non potendo, o non volendo?
Addio Athos eroico Comandante della nave.
Domenico Mazzullo

martedì 30 novembre 2010

La Grande Guerra


Il mondo del Cinema è in lutto. Il mondo della Cultura è in lutto. Il mondo di tutti noi che amiamo entrambi è in lutto per la morte di un Grande, Mario Monicelli Che ha finito di combattere la Sua personale, eroica Grande Guerra, quella Grande Guerra che ha voluto immortalare ed onorare in un mirabile film, uno dei tanti che ha realizzato, ma quello che a me è più caro e che sempre mi emoziona e mi commuove ogni volta che lo rivedo, ogni volta che rivedendolo, scopro in esso un messaggio sempre nuovo e che la volta precedente mi era rimasto nascosto.
Nella tradizione ebraica, quando una persona cara muore, in segno di lutto ci si toglie le scarpe.
Il perchè me lo spiegò un mio amico ebreo che venne a trovarmi quando morì mio padre:
"Nei tempi lontani, possedere le scarpe era un segno di ricchezza e quando muore una persona cara diventiamo improvvisamente tutti più poveri.".
Ecco, io credo che ora dovremmo tutti toglierci le scarpe in segno di lutto perchè siamo diventati tutti più poveri per la mancanza di una Persona Che ci ha lasciato, ma Che per nostra fortuna ci ha lasciato le Sue Opere, la Sua testimonianza, la Sua eredità, che ci rende tutti un poco meno poveri.
Mario Monicelli si è suicidato, gettandosi giù da una finestra dell'Ospedale S. Giovanni di Roma, ove era ricoverato perchè affetto da un "male incurabile" come si legge nei necrologi.
Non ha atteso che la morte inevitabile, giungesse a rapirlo secondo i suoi tempi, non ha atteso che la Nera Signora, in agguato dietro la porta, scegliesse Lei il momento giusto per portarlo via.
Ha voluto Lui decidere tempi e modi, ha voluto Lui decidere come morire, avendo deciso come vivere.
In una intervista che ascoltai qualche tempo addietro disse lucidamente, ricordo perfettamente le parole:"Ho sempre deciso come vivere, voglio decidere come morire". Quando la vita non è più degna di essere vissuta è giusto abbandonarla".
Lo ha fatto.
Fedele al Suo pensiero, quando ha ritenuto che la Sua vita non fosse più degna di essere vissuta, l'ha interrotta volontariamente e per scelta, aggiungendo il Suo nome a quello di tanti altri che in piena coscienza e in piena consapevolezza, hanno fatto la medesima scelta, di libertà, io ritengo e sono convinto.
Ho precisato e sottolineo, in piena coscienza e in piena consapevolezza, in quanto, proprio come psichiatra lotto quotidianamente contro il suicidio di pazienti affetti da depressione, più frequentemente, ma anche da altre patologie, i quali tentano o a volte mettono in atto un suicidio, determinato non da una libera e consapevole scelta, ma piuttosto dalla sofferenza indicibile provocata dalla malattia, sofferenza che però è, e questo rende drammatico il suicidio, curabile, guaribile, sopprimibile, assolutamente temporanea.
Ben diverso è il caso di chi, non affetto da tali malattie psichiche che offuscano la coscienza, ma in piena integrità psichica, decide che è giunto per lui il momento di congedarsi dal mondo
perchè la sua vita non è più degna di essere vissuta.
E', a mio modesto parere, l'estremo atto di libertà lasciato all'uomo che, non libero di scegliere se nascere, almeno è libero di scegliere di morire.
Se non le abbiamo lette a scuola, leggiamo o rileggiamo le meravigliose pagine dei "Dialoghi" di Seneca, o dei "Dialoghi" di Platone, o dei "Ricordi" di Marco Aurelio, ove molto molto molto meglio di quanto io sia capace, Loro timidissimo e iniquo allievo, sono espressi questi concetti di libertà umana.
Mario Monicelli ha avuto in dono dalla sorte, la possibilità, la libertà di porre in atto questa Sua determinazione. La considero una fortuna, un regalo della vita.
Ad Altri, meno fortunati, questa stessa fortuna è stata negata dalla malattia, o da altre circostanze negative.
Io egoisticamente spero e mi auguro con tutto il cuore che, se mi trovassi in circostanze analoghe, questa fortuna non mi venisse negata.
Addio Mario Monicelli, Ti ringrazio per questa ultima lezione di vita che, morendo come Tu hai voluto, ci hai lasciato. Grazie.
Domenico Mazzullo

giovedì 25 novembre 2010

Finocchi


" Finocchi".
Finocchi è il termine dispregiativo, uno dei tanti, con cui, soprattutto nella mia Roma vengono appellate le persone omosessuali, ma forse pochi sanno a cosa sia da attribuirsi questo termine.
In tempi nemmeno tanto lontani, la Chiesa usava mandare al rogo gli omosessuali, rei di essere "contro natura", ma benevolmente attenta al piacere e al godimento di coloro i quali assistevano a questi spettacoli edificanti e per non disturbare il loro olfatto, con il nauseabondo odore di carne umana bruciata, assieme alle fascine di legna cui veniva appiccato il fuoco purificatore, venivano aggiunti dei finocchi, affinchè bruciando, coprissero con il loro profumo il nauseabondo olezzo che si sprigionava dai roghi.
Ora i roghi non ci sono più, i finocchi, quelli veri, vengono consumati in tavola, ma l'atteggiamento della Chiesa non è per nulla cambiato nei confronti delle persone omosessuali.
A ribadire questo concetto sono giunte le ultimissime affermazioni del nostro Papa nel suo libro-intervista "Luce del mondo", già oggetto della nostra attenzione a proposito di preservativi e del loro uso consentito in casi assolutamente eccezionali.
Il Papa-pensiero in tema di omosessualità può essere così riassunto ed esplicitato: Le persone omosessuali vanno rispettate e non devono essere discriminate, ma l'omosessualità rimane qualcosa che è contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto e non è nemmeno conciliabile con il sacerdozio.
Pochi chiari, lapidari concetti che non lasciano adito a dubbi e non aprono alcuno spiraglio ad una sana discussione. Ipse dixit.
Ma per non dare adito a dubbi di una cattiva interpretazione, o peggio di una interpretazione partigiana e vittima di pregiudizio, mi permetto di riportare integralmente, tra virgolette, le parole del Santo Padre:
"Un conto è il fatto che sono persone con i loro problemi e le loro gioie e alle quali, in quanto persone è dovuto rispetto, persone che non devono essere discriminate, perchè presentano quelle tendenze.
Il rispetto per la persona è assolutamente fondamentale e decisivo.
E tuttavia il senso profondo della sessualità è un altro.
Si potrebbe dire, volendosi esprimere in questi termini, che l'evoluzione ha generato la sessualità, al fine della riproduzione.
Questo vale anche dal punto di vista teologico. Il senso della sessualità è condurre l'uomo e la donna, l'uno all'altra e con ciò assicurare all'umanità progenie, bambini, futuro.
Tutto il resto è contro il senso più profondo della sessualità. Ed a questo dobbiamo restare fedeli anche se al nostro tempo non piace. Si tratta della profonda verità di ciò che la sessualità significa nella struttura dell'essere umano.
Se qualcuno presenta delle tendenze omosessuali profondamente radicate, se in ogni caso queste tendenze hanno un certo potere su quella data persona, allora questa è per lui una grande prova, così come una persona può dover sopportare altre prove.
Ma non per questo l'omosessualità diviene moralmente giusta, bensì rimane qualcosa che è contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto".
L'omosessualità non è conciliabile con il ministero sacerdotale perchè altrimenti anche il celibato come rinuncia non ha alcun senso. Sarebbe un grande pericolo se il celibato divenisse motivo per avviare al sacerdozio persone che in ogni caso non desiderano sposarsi, perchè in fin dei conti anche il loro atteggiamento, nei confronti di uomo e donna è in qualche modo alterato.".
Mi si perdoni la licenza di aver voluto riportare integralmente i brani più salienti del discorso del Papa, ma solo una lettura integrale può, a mio parere, renderci ragione di alcuni concetti che non sono una mia interpretazione, ma un dato oggettivo.
In primis il Papa, dietro una benevola accondiscendenza verso persone, che debbono essere rispettate in quanto persone (ma perchè non dovrebbero?) dimentica o tralascia opportunamente di ricordare, che proprio la Chiesa di cui ora è a capo, non ha rispettato queste persone, mandandole al rogo, assieme agli eretici, le streghe, a chi voleva semplicemente esercitare il proprio libero pensiero.
Ma è acqua passata, di cui non occorre far menzione.
Dietro però questa, solo apparente, magnanimità si rivela un atteggiamento fortemente e rigidamente omofobo cui la Chiesa non ha mai rinunciato e le parole del suo capo ne sono l'esempio.
Fatto salvo il discorso sul rispetto delle persone omosessuali, per il quale siamo d'accordo, dobbiamo essere d'accordo, il pensiero del Papa, si complica, a mio parere, nelle parti successive, sul piano della coerenza logica, non conosco quella teologica ,nella quale si dice il Papa essere un grande esperto e studioso.
Se infatti, come il Papa sostiene, è vero che "l'evoluzione ha generato la sessualità al fine della riproduzione e che il senso della sessualità è condurre l'uomo e la donna l'uno all'altra e con ciò assicurare alla umanità progenie,bambini, futuro", se è vero, come sempre il Papa asserisce, che "se qualcuno presenta delle tendenze omosessuali profondamente radicate, se in ogni caso queste tendenze hanno un certo potere su quella data persona, allora questa è per lui una grande prova, così come una persona può dover sopportare altre prove", allora sono logicamente obbligato a dedurre, che queste tendenze omosessuali, in quanto una grande prova cui sono sottoposto, non sono una mia libera scelta di cui sono artefice e responsabile, ma una jattura che mi è capitata tra capo e collo, una disgrazia, uno scherzo del destino.
Allora il Papa mi deve logicamente dimostrare e spiegare il senso della sua successiva affermazione:"Ma non per questo l'omosessualità diviene moralmente giusta, bensì rimane qualcosa che è contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto".
Se l'omosessualità è una grande prova che mi è toccato dover sopportare e quindi non ne sono responsabile, allora perchè la mia omosessualità non può divenire moralmente giusta?
E ancora, se l'omosessualità "rimane qualcosa che è contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto", allora mi permetterei di chiedere ancora al Papa, che evidentemente, a suo dire, conosce molto bene la volontà di Dio, se a suo parere l'omosessualità in questione sia da attribuirsi ad una svista, ad un attimo di distrazione di Dio, ad un involontario errore di esecuzione, o di costruzione, per cui il prodotto è risultato infine diverso dal progetto originario.
Ancora più tortuoso e logicamente incomprensibile, appare il discorso del Santo Padre a proposito di omosessualità e sacerdozio. Il Papa infatti afferma: "L'omosessualità non è conciliabile con il ministero sacerdotale, perchè altrimenti anche il celibato come rinuncia non ha alcun senso".
In altre parole e se ho ben compreso per l'omosessuale che divenisse sacerdote, quella vocazione al celibato, ossia rinuncia al matrimonio con una donna, in realtà non costituirebbe una vera rinuncia in quanto omosessuale e quindi non desideroso di sposare una donna, quindi non vi sarebbe merito nella sua rinuncia.
Ragionamento capzioso e subdolo, degno di un uomo di chiesa, che non tiene però conto di un piccolo, insignificante particolare, ossia che la vocazione al celibato è da intendersi come vocazione alla rinuncia di una espressione attiva della propria sessualità e non del matrimonio.
Purtroppo non credo che il Papa scioglierà mai i miei dubbi rispondendo alle mie domande.
Domenico Mazzullo

domenica 21 novembre 2010

Contrordine Compagni


"Contrordine Compagni", rettifico, "Contrordine Cattolici". Con la stessa apodittica autorevolezza, con la quale venivano impartite le direttive del partito alla base e quindi il nuovo pensiero, obbligatorio per tutti, con la stessa autorevolezza, che gli deriva dalla sua infallibilità papale, infallibilità proclamata mutu proprio da Pio IX all'indomani della Breccia di Porta Pia, il Papa attuale Benedetto XVI, ha mutato opinione sul preservativo, alias profilattico fino ad oggi rigidamente proibito dalla Chiesa e solo l'anno scorso ritenuto dallo stesso Papa inutile, anzi addirittura pericoloso come mezzo di protezione e salvaguardia dalla infezione di AIDS.
Ricordiamo tutti l'eco di sdegnata protesta suscitata dalle parole del pontefice in occasione del suo viaggio in Africa, solo l'anno scorso, quando con scarsa attenzione diplomatica, ma soprattuto umana si espresse in questi termini.
Ma mutare opinione, quando lo riteniamo opportuno, è saggio, coraggioso ed è segno di grande levatura morale ed intelligenza.
Per questo salutiamo con entusiasmo e giubilo la grande apertura mostrata dal Papa ed espressa dalle sue parole a proposito di preservativo:
Dopo attenti e profondi studi scientifici e teologici, sappiamo infatti che il Papa è un grande conoscitore della scienza teologica, Benedetto XVI ha compiuto questa svolta epocale,tutta racchiusa in queste poche, scarne, semplici, illuminanti parole:"Concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità e questa banalizzzione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l'espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sè. Vi possono essere singoli casi giustificati, ad esempi quando una prostituta utilizza un profilattico e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità, per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può fare tutto ciò che si vuole. Tuttavia questo non è il solo modo vero e proprio per vincere l'infezione dell'Hiv. E' veramente necessaria una umanizzazione della sessualità.".
Pur non essedo religioso, ringrazio il Papa per questa coraggiosa presa di posizione che segna una via nuova per la Chiesa in tema di sessualità e che scioglie i cattolici tutti da angosciosi dubbi e problemi morali, ma credo altresì di poter interpretare i segni e i sentimenti di filiale gratitudine da parte di tutte le prostitute così paternamente prese in considerazione dal Santo Padre attento alla loro salute, ma soprattutto a quella dei loro clienti.
Purtroppo, ma è un particolare irrilevante che certo può essere sfuggito ragionevolmente al Papa così impegnato, la trasmissione del virus Hiv è solo in minima parte dovuta a rapporti cosiddetti mercenari, mentre è legata per la maggior parte a rapporti occasionali e non solo, non protetti per ignoranza, per imprudenza, per sfida, soprattutto nei giovani, per povertà, come avviene nei paesi africani.
Rimane purtuttavia fermo e valido il concetto già espresso in Africa, che il profilattico, ma allora perchè ci si ostina a chiamarlo così, non rappresenta il modo per vincere l'infezione dello Hiv. Ma non si può mica avere tutto dalla vita....
E Papa Ratzinger veniva considerato un conservatore! La riabilitazione di Galileo Galilei risale solo a pochi anni addietro, quando Papa Giovanni Paolo II ha ufficialmente affermato che forse il grande scienziato aveva ragione e che tra Lui e la Chiesa si erano verificate alcune "incomprensioni" ora decisamente superate. In virtù di questo la Terra è ora libera di girare a tutto diritto attorno al Sole.
Forse le stesse"incomprensioni" si verificarono nei confronti di Giordano Bruno, dei tanti eretici mandati al rogo dalla Santa Inquisizione, degli omosessuali anche essi bruciati vivi, delle donne accusate di stregoneria. Ma è passato tanto tempo...
Gli Americani hanno perdonato i Giapponesi per Pearl Harbour, i Giapponesi hanno perdonato gli Americani per Hiroshima e Nagasaki e noi non vorremmo perdonare la Chiesa per fatti avvenuti tanto tempo addietro?
Domenico Mazzullo

domenica 14 novembre 2010

Un caso di coscienza


Abituati come siamo, a leggere nelle pagine dei giornali, o peggio vedere in televisione le notizie e le immagini, spesso raccapriccianti ed inutili di morti violente di uomini, per mano di altri uomini, ci sembra quasi che senza una o più morti, senza cadaveri in bella vista, per il macabro godimento degli spettatori, la notizia non sia una notizia, non sia degna di essere pubblicata e diffusa.
Per questo motivo sono stato oggi molto colpito, direi favorevolmente colpito, dal risalto che alcuni quotidiani, tra quelli che leggo, hanno dato ad un evento conclusosi senza morti e feriti, senza spargimento di sangue, ma che ci fa riflettere, che ci obbliga quasi a riflettere e a prendere posizione in quanto esseri umani appartenenti a questa comunità, ci impone di porre e di proporre alla nostra coscienza un quesito, un interrogativo un dubbio, che solo nel nostro intimo ed in solitudine con noi stessi, possiamo cercare di risolvere.
Il fatto è recente, ma non appartiene al nostro paese, così ahimè abituato a casi di malasanità che vedono medici indagati per inadempienze, per incompetenze, per fatali leggerezze nei confronti dei poveri pazienti, ma è avvenuto in Germania, a Padenborn una città della regione occidentale del Nord-Reno-Vestfalia.
In ospedale il paziente, un uomo di 36 anni era già stato anestetizzato. Ma quando il chirurgo che si apprestava ad eseguire l'intervento ha visto il tatuaggio che campeggiava su un bicipite (la classica aquila posata su una croce uncinata simbolo del nazismo) si è tirato indietro. Letteralmente. Si è tolto la mascherina dal viso, ha svestito il camice verde ed è uscito dalla sala operatoria, pregando un altro chirurgo presente di operare al posto suo il paziente.
All'esterno, in una sala d'attesa era seduta la moglie del paziente. Il quarantaseienne chirurgo le si è rivolto direttamente con poche, ma inequivocabili parole:"Io non opererò suo marito, signora, non posso, perchè sono ebreo, la mia coscienza non me lo permette.". L'altro chirurgo ha preso il suo posto, l'intervento è stato eseguito con esito felice, il paziente sta bene.
Seguiva l'articolo del giornale il commento di una giornalista, che leggo sempre, che stimo ed ammiro per il Suo coraggio e la Sua lucidità, Fiamma Nirenstein, di evidenti, come svela il Suo nome, origini ebraiche.
La giornalista, pur comprendendo le motivazioni del chirurgo e cogliendo in esse delle attenuanti, ne stigmatizzava l'operato intitolando l'articolo di commento " Ha sbagliato da medico e da ebreo. Salvare la vita viene prima di tutto" sintetizzando con queste parole il Suo pensiero poi diffusamente espresso.
Come medico, istintivamente e senza riflettere, mi sono sentito dapprima solidale con il pensiero della giornalista, così lucidamente e logicamente manifestato, ritenendo che il mio collega ebreo-tedesco fosse venuto meno a quanto per noi medici è sacro ed inviolabile, il Giuramento di Ippocrate che ci obbliga a prestare le nostre cure a chi ha bisogno del nostro operato, prescindendo da ogni altra valutazione di tipo personale, qualunque essa sia, senza se e senza ma.
E' estremo ed evidente, per esempio, il caso in cui, in guerra un medico è obbligato ad esercitare la propria opera di aiuto nei confronti di nemici, o amici, se si trovano in caso di necessità.
Altrettanto perentorio è l'imperativo categorico per ogni medico di prestare soccorso spontaneamente ed immediatamente a chi ne avesse bisogno e si trovasse in pericolo.
Fermo rimanendo tale inalienabile ed incontestabile principio, riflettendo però con calma e tempo necessario e liberandomi dalla emozione immediata che la lettura della vicenda ha in me suscitata, sono stato costretto a rivedere la mia posizione ribaltando completamente la mia deduzione.
In primis, nel caso in questione non si configurava la fattispecie di assoluta urgenza ed emergenza ed uno stato di necessità, essendo il paziente ricoverato in ospedale e soprattutto essendo un altro chirurgo in grado di intervenire al posto del medico che rinunciava ad operare e quindi a prendersi cura del paziente.
Ben diverso sarebbe stato il caso in cui il chirurgo ebreo fosse stato l'unico in grado di operare, o l'unico medico presente e disponibile, configurandosi in tale ipotetica circostanza uno stato di assoluta necessità, che assolutamente non avrebbe permesso al medico di sottrarsi al proprio dovere.
Ma la spiegazione dell'operato del chirurgo, che si è rifiutato di operare è tutta nelle sue stesse parole, nelle poche lapidarie parole che ha rivolto alla moglie del suo paziente:"Io non opererò suo marito, signora, non posso, perchè sono ebreo, la mia coscienza non me lo permette".
Attenzione, il medico non ha detto "non voglio", ma ha detto "non posso" e ha aggiunto "la mia coscienza non me lo permette". Quale coscienza? Di ebreo? Di medico? O ambedue?
La chiave di lettura dell'operato del medico è tutta in quel suo "non posso".
Ogni medico sa bene e deve sempre tener presente, che quando non si trova in una condizione di assoluta necessità, come ho specificato in precedenza, se le sue condizioni sia psichiche che fisiche non sono tali da poter offrire al paziente il meglio di se stesso ,o le sue capacità e competenze professionali non sono tali da farlo sentire adeguato al compito, deve, rinunciare ad esercitare la sua professione nei confronti del paziente.
In questo caso specifico non si trattava ovviamente di competenze professionali, essendo il medico un chirurgo pronto ad operare, quanto piuttosto di una situazione psichica ed emotiva, venutasi a creare, al momento della constatazione, per il medico ebreo, essere il suo paziente un neonazista.
Mi è facile immaginare come il medico possa essersi sentito non perfettamente libero ed esente da emozioni e turbamenti d'animo, da sentimenti comprensibili e facilmente immaginabili che avrebbero potuto renderlo, secondo la sua coscienza, non perfettamente lucido ed adeguato al delicato compito cui si accingeva e constatando questo, giustamente e doverosamente ,abbia rinunciato ad operare, affidando il paziente ad un altro chirurgo.
Ben diverso sarebbe stato il caso in cui, egli fosse stato l'unico chirurgo a poter operare.
In tale circostanza il medico, con tutti i suoi turbamenti, sarebbe stato costretto, dal suo dovere, ad operare.
Rovesciando le circostanze è lo stesso motivo per cui la maggior parte dei medici rinunciano o rifiutano di prendersi cura dei propri familiari, proprio perchè non si sentono liberi da coinvolgimenti affettivi nei loro confronti, che li renderebbero non obiettvi e lucidi nella diagnosi e nelle terapie eventuali.
Mi rendo conto che tutti questi possono, o potrebbero sembrare discorsi accademici e forse superflui, visto che tutto poi si è risolto positivamente. Forse lo sono, forse così penserà chi ha avuto la pazienza di leggermi fin qui, ma non per me, per me uomo e soprattutto medico, per il quale rappresentano una necessità, un motivo di riflessione, di approfondimento, di autocritica anche e naturalmente, di autocensura.
Ma una ultima riflessione mi viene fornita dall'episodio e va ad aggiungersi alle tante constatazioni, più volte fornitemi sull'argomento, dalla esperienza personale e professionale.
Spesso ed a me è accaduto, come dicevo anche in questa ultima circostanza, esprimiamo giudizi e valutazioni sulla scia di emozioni e passioni, di stati d'animo emotivi, giudizi che poi devono necessariamente non fermarsi lì, ma essere assolutamente sottoposti al vaglio ed alla critica serrata della nostra ragione, che spesso giunge ahimè a conclusioni diametralmente opposte alle prime formulate, creando entro di noi un conflitto difficile da risolvere tra sentimento e ragione.
Ma sentimento e ragione sono veramente due funzioni della nostra psiche l'una contro l'altra armate? E' mai possibile che entro di noi si sviluppi quotidianamente una lotta intestina tra le due? O non è forse più vero che entrambe le due funzioni siano necessarie alla nostra esistenza e si adoperino con modi, ma soprattutto tempi diversi, per condurci ad un giudizio sulla realtà che ci circonda?
Il sentimento infatti, inteso in senso lato, ci porta a conclusioni rapide, ma necessariamente imprecise.
La ragione, più lenta, ci permette di esprimere giudizi più tardivi, ma certamente più precisi e circostanziati.'
Uno ha quindi il vantaggio della velocità nelle conclusioni, l'altra di una maggiore precisione. Forse se riuscissimo ad usare entrambi gli strumenti, raggiungeremmo migliori risultati.
Mi piace concludere a questo proposito, con la frase di un grande psichiatra dei primi anni del secolo scorso, Kurt Schneider, Che considero il mio Maestro, pur essendo Lui scomparso quando io ero da poco nato, ma avendo studiato e spero compreso tutti i Suoi libri:
"Un uomo che fosse solo sentimento, non sarebbe ancora un uomo. Un uomo che fosse solo ragione, non sarebbe più un uomo".
Grazie per avermi letto fin qui.
Domenico Mazzullo
d.mazzullo@tiscali.it
www.studiomazzullo.com

martedì 9 novembre 2010

Giovani

Giovani

E’ ormai un luogo comune, accettato, collaudato e consumato dal tempo, il considerare i giovani una generazione in decadenza, già prima di raggiungere la maturità piena, età cui la decadenza, dovrebbe ahimè succedere fisiologicamente e si spera lentamente e senza dolore.
Credo e ho avuto modo di constatare come questo sia un concetto abituale in ogni epoca ed appannaggio proprio della generazione che giovane non è più e che vede la generazione che la segue e la incalza dappresso, come meno valida, meno preparata, meno culturalmente dotata, meno animata dalla solita “buona volontà” che ancora non ho compreso cosa sia ed ove sia.
Era un concetto che sentivo ripetere, quando ero ragazzo, dalle persone che erano sopra di me, come età, come meriti, come esperienza, come ruolo, come gerarchia e che ora mi trovo a sostenere anche io avendo raggiunto una età in cui certi concetti si esprimono per dovere generazionale, se non anche per convinzione ed esperienza vissuta.
Abituato come sono, per fortuna e spero di continuare ad esserlo sempre, a pormi in discussione, ad interrogarmi sulla validità di quanto penso ed affermo, di ciò in cui credo e confido, dei miei valori e delle mie idealità e fino a che ne sarò capace, ritengo di potermi ancora considerare giovane, ho più volte sottoposto al vaglio della mia stessa e personale critica serrata questo concetto, questa constatazione, questa convinzione, ossia che le nuove generazioni non siano migliori, sotto alcuni aspetti, di quelle precedenti, ma anzi, se possibile peggiori, o meno valide, meno preparate e meno adeguate ad affrontare le sfide e soprattutto i compiti che la vita stessa ci sottopone e ci offre gratuitamente.
Purtroppo il vaglio, come dicevo, della mia critica severa, ha sempre confermato questa sensazione, questa impressione, questa constatazione, facilitato in questo compito, dal mio essere uno psichiatra e quindi a contatto, per elezione e per passione, con le difficoltà esistenziali, non è il caso di chiamarle patologie, delle varie generazioni.
Non sono mai stato felice di questa acquisizione, anzi devo sinceramente dire che mi ha sempre profondamente rattristato ed addolorato, per due motivi, uno sociale e l’altro personale.
Il primo, più grave certamente, è presto spiegato ed immediatamente comprensibile: se una società è tale per cui le nuove generazioni, quelle alle quali deve inevitabilmente ed ineluttabilmente passare il “testimone” dalle mani di coloro i quali li hanno preceduti, non sono migliori, più preparate, più forti e più consapevoli, più mature, più adeguate di quelle precedenti che tale “testimone” devono lasciare, allora ineludibilmente quella società è in decadenza, decadenza tanto più vertiginosa quanto più evidente è il fenomeno peggiorativo, di generazione in generazione.
Il secondo motivo è più privato e personale, anche se certamente meno grave e coinvolgente per gli altri: se quando ero ragazzo ascoltavo con una certa sufficienza e noia questi discorsi sui tempi passati, sempre migliori, da parte dei grandi, che già consideravo vecchi e sorpassati e oggi li faccio e soprattutto li penso anche io, allora inappellabilmente devo dedurre che la età matura e forse la vecchiaia ha raggiunto anche me.
Tutto questo fino a ieri, quando come a San Paolo sulla via di Damasco mi si è parata davanti una consapevolezza nuova, inaspettata e felicemente rassicurante, che ha fugato in un sol colpo i miei tristi pensieri.
Ieri, per la terza volta ho partecipato, come ospite della trasmissione, allo spettacolo televisivo “Studio 254 Show” che gli allievi della Accademia di Cesare Lanza Studio 254 mettono in scena e che va in onda per la Gold TV Italia.
Conosco l’Accademia per averla vista nascere ed avervi insegnato, conosco i ragazzi per averli avuti come allievi di mie noiosissime lezioni, ma per la prima volta li vedevo all’opera tutti nella costruzione di un programma televisivo, sotto la guida, attenta, ma non ingombrante di Cesare Lanza.
Al termine del programma mi sono congedato da loro con una strana sensazione, con una particolare emozione, con un nuovo sapore in bocca che solo successivamente, con il trascorrere del tempo e nel chiuso di una ritrovata solitudine ho potuto appieno apprezzare, comprendere, razionalizzare, analizzare, concretizzare ed ora verbalizzare e trasmettere.
Ho provato il sapore dolce amaro di sentirmi smentito dai fatti, di verificare, di toccare con mano, di dover ammettere con umiltà, di aver sbagliato, di aver equivocato, di aver male letto ed interpretato, di aver mal compreso la realtà nelle mie fosche ed oscure, pessimistiche previsioni.
E la prova inconfutabile del mio errore valutativo era proprio lì davanti a me, chiara, evidente, immediatamente coglibile e visibile, ineludibile nella sua esplicita realtà.
La prova era proprio in quei ragazzi, in quegli allievi, in quelle Persone, appartenenti ad una generazione successiva alla mia, e che si impegnavano, che lottavano, che si appassionavano, che soffrivano nello sbagliare, che cercavano di imparare, che volevano conseguire un risultato, raggiungere un obiettivo, coronare un sogno, che volevano faticare per conseguirlo, che volevano sognare.
Non mi è stato tutto chiaro mentre ero con Loro, in mezzo a Loro.
Ho avuto bisogno di raccogliere i miei pensieri in solitudine, di ripensare e riordinare le emozioni provate, di rivedere sulla moviola della memoria i volti, le espressioni, le ansie, le paure, le sofferenze anche, di quei ragazzi che sognano e si impegnano per realizzare un sogno.
Solamente da solo ho potuto trarre le mie conclusioni, ho potuto raccogliere le emozioni e le sensazioni in un pensiero concluso e coerente, razionale e comunicabile.
E’ falso e solo per noi più maturi rassicurante e confortante pensare, credere, essere convinti che le nuove generazioni siano meno mature, meno volenterose, meno disposte al sacrificio di quanto lo siano state quelle precedenti.
Sono felice di poter ammettere di aver fino ad ora sbagliato.
Ieri ho visto una ragazza dell’Accademia piangere a calde lacrime, disperata, perché non riusciva a cantare bene una canzone, la sua canzone. Mi sono commosso. Mi ha commosso.
Penso e sono convinto che finché continueranno ad esistere ragazzi così il futuro dell’umanità è salvo ed assicurato.
Ringrazio Cesare Lanza che ha voluto e creato questa Accademia, ringrazio i ragazzi che la compongono per avermi fornito l’occasione di ricredermi, per avermi fornito l’opportunità di ammettere di aver sbagliato.

Domenico Mazzullo

martedì 19 ottobre 2010

Lutto

Non ho trovato immagine migliore, più adatta, per commentare, o introdurre visivamente quanto mi accingo a scrivere e penso in questo momento.
Ogni giorno in tutto il mondo muoiono innumerevoli persone. La maggior parte di queste rimangono da noi ignorate. Alcune vengono conosciute dalle pagine dei giornali, o dalle immagini televisive e rimangono nella nostra memoria per pochi attimi, il tempo di esaurirsi della notizia, che ormai ci lascia indifferenti, poche ci riguardano personalmente e toccano i nostri affetti più cari, la nostra intimità, la nostra vita.
In questi giorni una morte, una scomparsa, riguarda tutti noi personalmente, in quanto esseri umani, appartenenti ad una umanità che si ostina ancora orgogliosamente a chiamarsi civile.
Mi riferisco alla morte di Sarah Scazzi, la adolescente uccisa forse dallo zio, forse dalla cugina, forse anche da altri che sapevano ed hanno taciuto, che sanno e tacciono.
Fedele all'insegnamento di Cesare Beccaria uso il "forse" perchè ciascuno è innocente fino a che non venga appurata con assoluta certezza la sua colpevolezza.
Ma non è questo che mi interessa adesso. Ciò che mi colpisce e mi sconcerta è che la nostra vita, la vita di tutti noi procede esattamente eguale a prima, esattamente secondo gli stessi binari dopo che una adolescente, poco più che bambina è stata uccisa, attratta in un agguato premeditato, mentre ignara pensava di recarsi al mare assieme alla cugina e ad una amica e forse, sempre forse, il delitto è maturato nell'ambito della sua stessa famiglia.
Mi sconvolge l'indifferenza con cui accogliamo e facciamo nostre certe notizie, indifferenza rotta solo dalla morbosa curiosità di coloro che si recano in gita la domenica sul luogo del delitto, per vedere, per toccare con mano, per curiosare, per fotografare, per rubare qualche commento.
Forse questa indifferenza collettiva, questa orrenda e morbosa curiosità mi spaventa più dello stesso delitto, perchè se la malvagità esiste e provoca certi fatti orrendi, ancora più malvagia è l'indifferenza di chi a questi fatti assiste direttamente o indirettamente e non fa nulla, o peggio agisce soddisfacendo la propria bramosia di curiosità.
Ma forse, al di fuori dei familiari, una persona veramente addolorata per la morte di Sarah c'è, forse ancora non sa, forse ancora non ha compreso che Sarah è morta e non tornerà più, forse ancora La aspetta fiduciosamente.
Si chiama Saetta. E' un cane randagio, un cane che Sarah aveva per così dire adottato da tempo e che La seguiva ovunque, che La accompagnava non appena la vedeva uscire di casa e che certamente La ha accompagnata anche quel tragico pomeriggio quando Sarah che credeva di andare al mare, andava invece incontro alla morte.
E Saetta è rimasto lì, davanti a quel cancello marrone che tutti abbiamo visto, che ci è diventato ormai familiare, quel cancello che Sarah ha varcato da viva e dal quale non è più uscita, viva.
E Saetta ignaro di quanto è accaduto lì dentro alla sua Sarah è rimasto ad attenderLa, convinto che prima o poi Sarah sarebbe comparsa di nuovo ad accarezzarlo e a lasciarsi accompagnare.
Con questa speranza Saetta è rimasto lì anche quando davanti a quel cncello sono comparse le telecamere, gli investigatori, i volontari che cercavano Sarah per ogni dove e forse si chiedeva il perchè di tanto trambusto insolito e disturbante.
Non poteva capire, non poteva immaginare. Sapeva solo che Sarah era entrata lì e da lì sarebbe dovuta uscire e lui La attendeva fiducioso.
In molti avranno notato questo cane randagio aggirarsi nei pressi, gurdare, fissare quel maledetto cancello marrone, senza perderlo di vista un attimo, perchè da lì sarebbe dovuta uscire Sarah per accarezzarlo di nuovo, ma nessuno ha fatto caso, nessuno ha compreso.
Povera Sarah, povero Saetta, forse un giorno capirai che Sarah non verrà più ad accarezzarti, o forse no, forse fedele come sei, continuerai ad aspettarLa chiedendoti perchè tarda tanto, perchè non compare, ma sempre fiducioso che La vedrai ricomparire per accarezzarti come sempre.
Caro Saetta, non sei il primo e non sei l'ultimo nella tua fedeltà. Un tuo fratello famoso, al quale è stato dedicato un film ed un libro, Hachiko, in Giappone, ha atteso per anni alla stazione che il suo padrone facesse ritorno con il treno e qui in Italia un altro tuo fratello ha meritato addirittura l'onore di un monumento, sempre in una stazione, ove per anni ha atteso invano che il suo padrone ferroviere scendesse da quel treno dal quale sempre era solito scendere, prima che morisse.
Caro Saetta forse la natura è stata pietosa con Te e Ti ha voluto premiare per la Tua bontà e la Tua fedeltà non permettendoti di comprendere il linguaggio degli umani e impedendoti quindi di conoscere, dalle loro parole, la verità, di apprendere da loro che Sarah non tornerà più uccisa dalle mani di uno di loro, che per causa di uno di loro Sarah non potrà più accarezzarti e tu non La potrai più accompagnare come sempre.
Forse è meglio così, perchè in questo modo Tu potrai continuare a sperare di vederLa ricomparire da quel cancello ove La hai lasciata e non smetterai di amare gli esseri umani, come invece meriterebbero.
Domenico Mazzullo
d.mazzullo@tiscali.it
http://www.studiomazzullo.com/

mercoledì 15 settembre 2010

XX Settembre 1870 XIX Settembre 2010


20 Settembre 1870 19 Settembre 2010
Non si tratta di ignoranza storica, o di un errore di distrazione dello scrivente.
Ben consapevoli che gli anniversari si festeggiano nel giorno corrispondente, questo anno purtroppo, noi membri dell'ALCRAS, associazione laica di ispirazione mazziniana, assieme a tutte le altre associazioni laiche, abbiamo deciso di anticipare la celebrazione del XX Settembre, data per noi fausta, perchè sancì la fine del potere temporale del Papa, al giorno precedente, 19 Settembre.
Tale dolorosa decisione è stata dettata da motivi di opportunità e nell'intento di esprimere la nostra contrarietà e la nostra disapprovazione.
Alle celebrazioni infatti del XX Settembre a Porta Pia, accanto al Presidente della Repubblica e al Sindaco di Roma, sarà presente anche, in veste ufficiale, il Cardinale Bertone.
Tale presenza è considerata da noi inopportuna e indesiderabile, venendo a stridere e confliggere con la assoluta laicità della celebrazione, laicità che già vedemmo offesa due anni addietro, quando il delegato del Sindaco di Roma, nel suo discorso celebrativo, citò uno per uno i nomi dei caduti di parte papalina, omettendo, forse per distrazione o mancanza di tempo, di citare i nomi dei nostri caduti italiani.
Consapevoli che tali iniziative, quella precedente e quella attuale corrispondono ad un preciso calcolo di opportunità politiche, alle quali ci consideriamo estranei, ribadiamo la nostra vibrata protesta e opposizione alla presenza di un esponente del Vaticano alla celebrazione del XX Settembre, presenza che ci appare sempre di più come un tentativo, usciti dalla porta, di rientrare dalla finestra.
Fedeli però al principio di tolleranza, caposaldo del nostro laicismo, abbiamo deciso di anticipare la data delle nostre celebrazioni laiche al giorno precedente.
Per tali motivi e nell'intento di evitare spiacevoli incontri, alle ore 12 del 19 Settembre 2010 a Porta Pia renderemo il giusto onore ai Caduti per la liberazione di Roma.
Saranno presenti i Vessilli della Carboneria, della Giovine Italia e della Repubblica Romana.
I cittadini sono invitati ad intervenire.
Domenico Mazzullo

mercoledì 1 settembre 2010

Levitas et gravitas

Ho sempre ammirato, fin dai tempi del liceo la capacità, dote rara, della lingua latina, di riuscire a sintetizzare, in una sola parola, un concetto spesso complesso che nella traduzione che eravamo costretti a fare, in italiano, nelle odiate versioni in classe, richiedeva una lunga e difficile circonlocuzione, per lo più non esattamente corrispondente al concetto così chiaro nella lingua dei Romani.
Sono sempre stato affascinato dalle parole levitas e gravitas, che nella traduzione letterale corrisponderebbero ai termini di leggerezza e pesantezza, ma che, applicati alla vita, esprimono e racchiudono concetti ben più profondi, attribuendosi il primo ad una modalità di interpretare la vita stessa e di viverla con leggerezza, che non vuol dire superficialità, ed il secondo a serietà, profondità, che non vuol dire pessimismo.
Mi sono sempre identificato con il secondo sentendolo a me più congeniale.
Ma al di fuori e al di sopra di considerazioni personali i Romani avevano evidentemente ben chiara la differenza tra i due concetti e conseguentemente tra i due reciproci territori di attribuzione e di interesse.
Noi che il latino non lo parliamo più e forse proprio per questo, o anche per questo, viviamo in una perenne e continua confusione, non solo linguistica, ma soprattutto concettuale, abbiamo naturalmente perso anche il senso di questi due concetti ed il significato ad essi connesso mescolando proditoriamente tra loro elementi appartenenti di diritto alla "gravitas" con elementi invece da attribuirsi alla "levitas".
Questo lungo preambolo per rimarcare e constatare ancora una volta, come con imperitura, pedissequa monotonia, ogni anno, puntualmente alla fine della Estate e al termine delle cosiddette vacanze che a questa consegue, si sia inondati e sommersi, in tutti i mezzi di comunicazione, radio, televisione, carta stampata, da una valanga inarrestabile di consigli, di ricette e di rimedi per superare lo "stress del rientro" ed il trauma orribile della "fine vacanza", patologia che ogni volta si ripete e si ripresenta, con puntuale e sconcertante precisione ogni anno, di questi tempi, analogamente alla epidemia di varicella in primavera.
Quest'anno però nei testi di psichiatria degli USA è comparsa per la prima volta ed è stata clinicamente identificata una ben precisa patologia denominata vacation blues che in italiano potrebbe essere tradotta con il meno romantico ed evocativo termine di "depressione da vacanze".
Con grande, immensa soddisfazione finalmente è stato dato un nome ed una causa scientifica, ad un malessere, ad una condizione esistenziale, che tutti abbiamo vissuto e subìto su di noi, entro di noi, dai tempi di scuola, quando il primo di ottobre, con crudele puntualità ricominciava la scuola e con questa data si sanciva la fine delle vacanze estive.
La scuola finisce, ma le vacanze rimangono e con esse il dolore, la disperazione, la depressione alla loro fine connesse.
Ierimattina alla radio, in una trasmissione molto seguita ed ascoltata, un illustre collega psichiatra ha fornito, per la prima volta la risultante di studi approfonditi e moderni sull'argomento, che avrebbero individuato la causa biologica, il substrato biologico di tale sindrome di fine vacanze, fino ad ora descritta solo clinicamente, substrato biologico che farebbe capo, guarda la combinazione, ai cosiddetti "ormoni dello stress" secreti dalle ghiandole surrenali e già ben conosciuti in altre occasioni di stress.
Ora che ne conosciamo anche la biologia, tale pericolosa patologia ci incute un poco meno paura, ma con tutto il rispetto dovuto a questi studi scientifici e alla serietà di chi li ha condotti e portati a termine, ci sembra, sempre con rispetto, "la scoperta dell'acqua calda", altrimenti detta "della rotondità della palla"o "della umidità dell'acqua".
Ma per fortuna alla identificazione, finalmente, della malattia e della sua causa biologica, corrisponde anche una possibilità di terapia, cosa che non sempre è possibile per altre patologie anche più semplici.
Gli stessi studi scientifici suggeriscono infatti, per bocca dello stesso psichiatra, come rimedio sovrano per questa "vacation blues", ci piace ora chiamarla così perchè più esotico e rievocativo di depressione da vacanze, una terapia unica e risolutiva, efficace in un ben 90% di casi di pazienti affetti, consistente in una metodica complessa di progressiva, lenta, graduale ripresa delle abitudini e dei ritmi lavorativi, con modalità che variano da caso a caso, ma che sempre sono accomunate da questo denominatore comune di gradualità e lenta progressione nel riaccostarsi al "travaglio usato" per dirla leopardianamente.
Siamo grati, come sempre, alla Scienza per averci fornito questo rimedio e per averci dotato di questo mezzo atto a liberarci di una sofferenza così diffusa e che sempre ha afflitto l'Umanità intera, da quando sono nate le vacanze.
Ma senza nulla togliere alla validità degli studi moderni, mi torna alla mente, con gratitudine e nostalgia, quella abitudine, meglio detto quel rito, messo in atto da mia mamma, quando mi trovavo ad uscire da una casa riscaldata, in inverno e mi vedevo costretto ad espormi brutalmente ed improvvisamente ai rigori del freddo esterno, rito consistente nella pratica imprescindibile di sostare per almeno cinque minuti all'interno dell'atrio prospiciente allo esterno, con la sciarpa di lana ben avvolta davanti alla bocca, per prendere la cosiddetta "mezz'aria.
Quanta inutilità, ma quanta dolce nostalgia in questi proustiani ricordi.
Ma visto che siamo in tema di nostalgici ricordi, mi sia concesso di rammentare un altro episodio del mio passato, in tema di vacanze che finiscono inevitabilmente e che riguarda, si riferisce al mio Maestro, un chirurgo Che mi ha insegnato cose indispensabili nella vita, come solo un padre sa fare.
Era il giorno di Ferragosto di molti anni fa e Lui non era in vacanza, non le faceva mai.
Al letto di un malato, in ospedale, a me allora studente, stava insegnando e mostrando, con le Sue mani che guidavano le mie, mi commuovo ancora nel ricordarlo, come palpare l'addome di un paziente.
In questo caso si trattava, purtroppo, di un paziente affetto da un tumore del colon che sarebbe stato operato da lui il giorno seguente.
Un poco più indietro due giovani medici del reparto, gioiosamente ed orgogliosamente abbronzati e prestanti, per nulla attenti e colpiti da quanto stesse avvenendo poco lontano da loro, si confidavano le esperienze delle reciproche vacanze.
Terminata la visita e la lezione di Medicina, il mio Maestro mi impartì una altrettanto, se non più importante lezione di vita, che non dimenticherò mai: con aria gentile, ma con quel distacco che, per me che Lo conoscevo bene, rappresentava i sensi del più profondo fastidio e disappunto, rivolgendosi ai due giovani medici disse loro con tono pacato: "Colleghi, qui ci sono persone che in vacanza non sono andate e forse non andranno mai più. Se proprio dovete parlare delle vostre vacanze, forse è meglio che vi accomodate fuori". E poi rivolto a me e solo a me proseguì, con aria malinconica:" e questo è il motivo per cui io non vado in vacanza, mai".
Forse il dottor Summa, così si chiamava il mio Maestro, molto prima degli ultimissimi studi in tema di "vacation blues" e delle sue connotazioni biologiche aveva intuito e compreso la terapia opportuna per questa sconvolgente patologia. E tale terapia ha insegnato anche a me.
Domenico Mazzullo
d.mazzullo@tiscali.it
www.studiomazzullo.com

domenica 29 agosto 2010

Ippocrate


Il mio Maestro, Colui che mi ha insegnato ad essere un medico, ma soprattutto un uomo, e non so ancora se ci sia riuscito, il dottor Claudio Summa, purtroppo da molti anni non più tra noi, era un chirurgo, un grande chirurgo e al tavolo operatorio, parlava poco, molto poco, ma quando lo faceva, mi colpiva sempre per la Sua lucidità e per la Sua malinconica e pessimistica ironia.
Una volta mi disse: "Sai, se avessi un figlio e un giorno mi dicesse che vuol fare il medico, se lo vedessi molto intelligente gli direi di fare lo psichiatra, se lo vedessi mediamente intelligente, gli direi di fare il chirurgo, se lo vedessi molto poco intelligente, gli direi di fare il ginecologo".
Non aveva stima dei ginecologi, il dottor Summa e a proposito di loro mi diceva che hanno due grandissime, immense colpe: la prima di far nascere le persone e la seconda, forse ancor più grave, di aver reso la gravidanza una malattia.
Un'altra volta, in una delle sue giornate più malinconiche mi disse: "sai ammalarsi è pericoloso, non tanto per le malattie in sè, che a volte guariscono spontaneamente, ma perchè i medici pretendono di curarle".
Molte volte mi son tornate alla mente e alla memoria le Sue parole e ogni volta ne riscontro la verità e la tragicità.
Ma oggi leggendo sul giornale la notizia di quanto avvenuto nella Ginecologia del Policlinico di Messina, quelle Sue parole mi appaiono profetiche, ma ottimistiche e non più pessimistiche come sempre le avevo credute.
Nel leggere che nel Policlinico universitario di Messina, due ginecologi hanno litigato giungendo alle mani, davanti ad una partoriente, mentre una partoriente attendeva di essere assistita da loro, che divergevano sul trattamento da praticarle, provo sgomento, orrore e vergogna di essere anche io un medico.
Per la cronaca, alla partoriente è stato asportato l'utero a seguito di una grave emorragia e il neonato ha subito due arresti cardiaci, per cui è ancora da valutare se abbia subito danni neurologici a causa della anossia.
E non mi consola, nè mi rassicura per nulla la comunicazione successiva da parte della Direzione della Ginecologia, che "non c'è alcun rapporto tra la lite e le complicazioni della donna che sono sorte a prescindere da quanto è accaduto".
Spero che sia così e voglio crederci, ma questo non cambia nulla, nulla toglie alla gravità estrema di quanto è accaduto.
Sta di fatto che due medici, due ginecologi, seppur umanamente dissenzienti sulle linee di trattamento da praticare, si sono lasciati andare ad un comportamento indegno di medici, inammissibile in medici, ma ciò che è ancor più grave e sconcertante, di fronte ad una paziente e in un momento di estrema emergenza.
Stento a crederlo e vorrei che fosse il contenuto di un incubo, dal quale destarmi, ma credo che non sia così.
Nel mio studio, dietro le mie spalle, è alla parete il "Giuramento di Ippocrate" che mi è stato consegnato al momento della mia Laurea e sul quale ho giurato.
Non so se sono riuscito sempre a rispettarlo ed onorarlo, ma oggi pessimisticamente, e forse ancor più pessimisticamente del mio Maestro mi chiedo se questo Giuramento abbia ancora un senso e un significato.
Certissimamente sono tantissimi i medici che lo onorano e lo rispettano quotidianamente, ma se anche uno solo di noi lo calpesta, il fango colpisce tutti.
Domenico Mazzullo

lunedì 23 agosto 2010

Cerimonie

Lo confesso, le cerimonie sono sempre state e sono per me particolarmente noiose.
Preciso, quelle religiose, perchè invece le laiche mi emozionano, ma tra quelle religiose, le uniche che fanno eccezione alla mia noia imperante e che pertanto amo profondamente, sono i funerali, in primis perchè sono brevi, perchè impongono un atteggiamento ed una espressione seria e contegnosa, vista la dolorosità della occasione, che ben si confà e si accorda con la mia perenne e dignitosa melanconia di fondo e soprattutto perchè, al termine di questi e scambiati i saluti di rito e le meste condoglianze ai familiari del defunto, ciascuno alla propria casa può far ritorno, senza passaggi e seguiti aggiuntivi.
Odio invece le cerimonie festose, i battesimi, che mi appaiono come la prima imposizione degli adulti sul recente neonato, le cresime, per fortuna ora più rare, ed in primis i matrimoni che impegnano una intera giornata, peggio se addirittura lavorativa.
In questi, la cerimonia religiosa, in chiesa, spesso di una lunghezza estenuante, rappresenta solo il primo atto di una commedia, per me tragedia, quando sono costretto a parteciparvi, in tre atti, il secondo , infatti, consistente nella ritualità delle foto con gli sposi, in pose improponibili e l'ultimo, il pranzo, come naturale ed evidente, il più temibile ed estenuante, lunghissimo, interminabile, claustrofobico e defatigante, per me che non sopporto di rimanere più di cinque minuti seduto a tavola, con le lentissime pause ed intervalli tra una portata e l'altra e quando tutto finalmente sembra finito, dulcis in fundo, la torta nunziale con rituale taglio di questa da parte degli sposi e il brindisi, vera tortura per me astemio.
Premesso questo, ho provato un istintivo moto di comprensione e solidarietà umana nel vedere il Santo Padre, per il quale sinceramente non provo simpatia, per motivi personali ed ideologici, colpito da un improvviso raptus morfeico, con tanto di tiara papale sul capo, schiacciare un improvvisato quanto improvvido pisolino, davanti agli occhi di tutti, durante chissà quale cerimonia alla quale presenziava, vinto dal sonno e forse anche dalla noia.
Non mi è difficile immaginare la costernazione e l'imbarazzo del fedele sacerdote alla Sua sinistra, costretto a destarlo delicatamente, con un gesto amorevole della mano, per non urtare la pontificale suscettibilità e risparmiarGli così una sconveniente caduta di immagine.
Domenico Mazzullo

giovedì 12 agosto 2010

Sensi di colpa

Se esistono i sensi di colpa, cosa di cui sono certi gli psicoanalisti che su questi hanno creato la loro fortuna, allora spero che questi sensi assillino per tutta la vita i proprietari di quel povero cane che ieri si è gettato giù dal settimo piano a Roma, non sopportando il dolore di essere stato lasciato solo dai suoi "amici umani" i quali, partiti per le giuste vacanze, lo avevano affidato ad un amico che gli recava il cibo, cibo che sebbene sufficiente per la sopravvivenza fisica del povero cane, non era evidentemente per nulla sufficiente alla sua sopravvivenza morale per la quale gli era assolutamente indispensabile la presenza dei suoi "amici umani".
Ho usato l'aggettivo morale, non a caso o per superficialità, ma coscientemente e volontariamente, perchè quella morale, quella affettività che sempre più raramente si riscontra negli umani, per contrasto e per fortuna sempre si incontra nei nostri amici animali e in special modo nei cani.
Alcuni, a proposito di questo triste evento accaduto a Roma e di uno analogo di soli pochi giorni addietro, vicino Torino, hanno parlato di suicidio del cane, venendo subito smentiti da veterinari ed "esperti" di animali, che hanno negato la possibilità di una volontà suicidaria in un cane, attribuendo l'accaduto ad "un gesto irrazionale frutto di uno stato di agitazione psicomotoria conseguente all'ansia da separazione".
Belle parole certo, ma che non tranquillizzandomi assolutamente, mi appaiono invece come un modo elegante e rassicurante per esprimere lo stesso concetto: disperazione con conseguente atto impulsivo e irrazionale, contrario all'istinto di sopravvivenza, ossia suicidio.
E ancor peggio non è forse suicidio la, in questo caso consapevole, razionale e volontaria rinuncia da parte del cane ad alimentarsi, quando il suo "amico umano" lo ha lasciato, per un breve periodo, o lungo, o per sempre?
Io ho personalmente assistito a casi dolorosissimi e commoventi di cani ed anche gatti, che lasciati soli, da miei pazienti deceduti, si son lasciati letteralmente morire, forse consapevoli, per quelle ragioni del cuore che la ragione non comprende, che il loro padrone non sarebbe più tornato da loro e con loro.
Mi fu narrata alcuni anni addietro, da una mia paziente, la vicenda commovente di suo fratello e del suo cane.
Il fratello, vedovo era solito andare a pescare tutte le mattine su uno scoglio e il suo cane fedelmente gli faceva compagnia e lo assisteva.
Una mattina il pescatore scivolò dallo scoglio reso sdrucciolevole dall'acqua, cadde a terra battendo violentemente la testa e morì sul colpo. Il cane corse a casa a chiedere aiuto facendosi intendere dai familiari del padrone che,subito accorsi, trovarono il corpo.
Tutte le mattine il cane si recò allo scoglio, per molti giorni, attendendo che il padrone tornasse.
Una mattina alcuni pescatori, che erano lì vicino e per i quali era divenuta familiare l'immagine di quel cane da solo sullo scoglio, in attesa, lo videro prima agitarsi e leccare il punto ove il suo padrone cadendo aveva battuto la testa morendo e subito dopo gettarsi in acqua nuotando verso il largo fino a che lo videro sparire tra le onde.
Neppure in questo caso si può parlare di suicidio volontario?
Domenico Mazzullo
d.mazzullo@tiscali.it
www.studiomazzullo.com

martedì 29 giugno 2010

In memoria di Pietro Taricone


Ogni giorno tante persone muoiono nel mondo. Di moltissime non veniamo neppure a conoscenza. Di poche apprendiamo la morte dalle pagine di cronaca dei giornali, soprattutto per le modalità con cui essa è avvenuta, ma tutte, purtroppo, ci lasciano più o meno indifferenti, come un fenomeno cui siamo abituati e che fa parte della vita stessa.
Ma quando a perdere la vita è una persona che conosciamo, seppure solo un poco, seppure superficialmente, allora la cosa ci tocca personalmente, ci emoziona e ci commuove e ci comunica, con il freddo linguaggio della morte, che un pezzettino di noi è andato via irrimediabilmente, che un pezzettino della nostra vita è scomparso e di esso rimarrà, se siamo fortunati, solo la memoria.
Non ho mai visto "Il Grande Fratello", in nessuna delle sue molteplici e pedisseque edizioni, ma ho conosciuto personalmente Pietro Taricone a "Domenica in" nella edizione del 2003-04, condotta da Paolo Bonolis, quando intervistavo in diretta, sub specie psichiatrica, gli ospiti VIP della trasmissione.
Uno di questi malcapitati fu proprio Pietro Taricone e serbo di quel colloquio sotto l'occhio delle telecamere, un ricordo preciso, emozionante ed anche commovente.
Vedevo Pietro per la prima volta e mi ero sommariamente informato su di Lui, da qualche ritaglio di giornale, allo scopo di rivolgerGli qualche domanda significativa, nello spazio della trasmissione che mi era destinato.
Quando si adagiò sul lettino, che nella immaginazione dello sceneggiatore avrebbe dovuto creare l'atmosfera particolare, assieme alle luci soffuse e al silenzio circostante, dello studio di uno psichiatra, nonostante la incombenza delle telecamere e del pubblico presente, notai immediatamente, e non senza stupore, sotto un atteggiamento visibilmente spavaldo, ma non scorretto, la Sua fronte imperlata di sudore, non certo per il calore e un leggero tremore alle mani, segno tangibile ed evidente di una certo disagio e tensione emotiva, inappropriata in Chi era certamente più abituato alle telecamere, di quanto lo fossi io.
Dopo qualche generica domanda per rompere il ghiaccio e creare una atmosfera rilassata, Gli chiesi di raccontarmi qualcosa della Sua famiglia e della Sua vita prima di raggiungere la notorietà e mentre mi stava rispondendo, non riuscendo a nascondere una certa commozione parlandomi dei genitori anziani, ad un tratto si interruppe, improvvisamente, e sollevandosi a sedere, dal lettino sul quale era disteso, mi disse, con voce rotta dalla emozione e concitazione e con gli occhi spaventati:"Dottore, io ho paura di parlare con lei, perchè lei mi scruta dentro e questo mi fa paura".
Confesso che mi colse del tutto alla sprovvista.
In quel momento, da quel momento, il tono della nostra conversazione cambiò radicalmente dimentichi Lui ed io certamente, di essere davanti agli occhi di tutti.
Gli spiegai che se è vero che uno psichiatra ci scruta dentro, ci legge dentro, questo lo fa solo ed esclusivamente con lo scopo e la intenzione di aiutarci, di permetterci di conoscerci meglio e più profondamente, di affrontare e superare i nostri lati oscuri, più reconditi e nascosti.
Solo allora, rassicurato e confortato, mi lasciò intendere, con le parole che il pudore Gli permettevano, di essere stato proiettato, trascinato in una dimensione forse troppo grande per Lui, ma dalla quale, alla quale ormai non era più in grado di sottrarsi e che la Sua vita aveva subito una svolta, forse non voluta, ma ormai inarrestabile.
Provai una grandissima tenerezza e se il mio ruolo e le esigenze della trasmissione non me lo avessero impedito, Lo avrei abbracciato paternamente, come la mia maggiore età mi avrebbe permesso.
Non Lo rividi più.
Oggi, alla notizia della Sua scomparsa provo un grande dolore misto al senso di ingiustizia e di rammarico che mi colpisce sempre, quando una persona più giovane di me, muore prima di me.
Addio Pietro, Che avevi paura Ti si scrutasse dentro. Ti ricorderò sempre con queste parole.
Domenico Mazzullo

domenica 30 maggio 2010

41 bis



Si chiama "41 bis" l'articolo del nostro codice penitenziario attualmente in vigore, applicato nei confronti e temuto anche dai più pericolosi mafiosi, altrimenti detto "carcere duro", che naturalmente, seppur nella sua durezza, nulla ha a che vedere con il "carcere duro" cui fu condannato e che patì il nostro patriota Silvio Pellico allo Spielberg, tristemente noto e conosciuto attraverso le sue "Le mie prigioni" lette, almeno un tempo, da ogni bambino delle elementari.
Conoscemmo, attraverso queste ,le severità, ma anche le umane pietà del carceriere Schiller, le grazie della sua figliuola, e pure il profumo della "rosa di Maroncelli", altro patriota e costretta a dividere con Lui le angustie del carcere austriaco.
Orbene, se fino ad ora eravamo certi che in Italia esistesse il regime di "41 bis", ossia di carcere duro, per i nostri detenuti particolarmente pericolosi, da oggi sappiamo, con ragionevole certezza e soddisfazione che un "41 bis" esiste anche.......all'Inferno, per i sacerdoti che in vita si sono macchiati del crimine efferato e vergognoso di pedofilia.
Lo apprendiamo, non senza stupore e sconcerto, ma anche con una certa soddisfazione e rassicurazione sulla equità della pena e della giustizia, direttamente dalla viva voce di Monsignor Scicluna, il quale, presiedendo una celebrazione di preghiera e riparazione per le vittime della pedofilia in San Pietro, ha commentato il noto passo del Vangelo di Matteo che contiene le severissime parole di Gesù per chi scandalizza i bambini:"E' meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato in mare".
Facendo salva ogni considerazione sulla pietà cristiana per i peccatori, Monsignor Scicluna ha affermato, con assoluta e totale convinzione, che questi peccati sono molto più gravi, se commessi da un religioso, tanto che per loro anche le punizioni dell'inferno saranno più dure.
E di Monsignor Scicluna c'è da fidarsi perchè, per dirla con Shakespeare, "è uomo d'onore" ma soprattutto è persona ben informata dei fatti essendo Egli, non un Monsignore qualunque, ma nientepopodimeno che il Promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede, l'ex Sant'Uffizio presieduto dal Cardinale Ratzinger prima che divenisse Papa, e quindi, in parole povere e in termini profani, il Pubblico Ministero incaricato di indagare su tutti i casi di pedofilia che coinvolgono esponenti del clero.
Quindi il messaggio è chiaro ed inequivocabile, severo e tale da far tremare i vivi:"Inferno
ancor più duro per i preti pedofili".
E noi che pedofili non siamo e neppure preti ,r imaniamo impressionati ed attoniti per la severità della pena, seppur giusta e sacrosanta e la sua caratteristica di ineluttabilità e di condanna definitiva per la vita eterna, ma più modestamente e prudentemente, desidereremmo che le porte del carcere terreno si aprissero, per tutti coloro i quali, preti e non, si macchiano di un crimine così vergognoso, e rimanessero chiuse dietro le loro spalle, per molti e lunghi anni.
Sulla condanna eterna nell'Aldilà non osiamo pronunciarci.
Domenico Mazzullo

martedì 18 maggio 2010

Si dice il peccato....





Si dice il peccato....ma non il peccatore, recita un vecchio proverbio di quella acuta e inalienabile saggezza popolare fatta spesso di luoghi comuni e di sentenze ovvie e lapalissiane, mai sottoposte a critiche e riflessioni e come tali accettate per buone e vere, espressione di quella verità che conforta e rassicura gli spiriti semplici bisognosi di certezze e nemici del dubbio, che invece insinua interrogativi pericolosi e sconcertanti, togliendo il sonno e disturbando il placido scorrere della nostra esistenza.
Come tale mi è sembrato il discorso del Papa domenica scorsa a piazza San Pietro, di fronte ad una folla osannante e giunta da ogni dove, a rendergli omaggio in questo momento difficile per lui e per la Chiesa che rappresenta e comanda, a sostenerlo e confortarlo, a proteggerlo e difenderlo dagli attacchi che da tante parti riceve in questo momento, a proposito del ben noto scandalo pedofilia in seno alla stessa Chiesa.
Eppure a ben leggerne le parole, da lui pronunciate e pubblicate su tutti i quotidiani di ieri, lunedì, qualcosa non mi convinceva, qualcosa mi suonava stonato, stridulo, pretestuoso, inappropriato e non convincente, dietro una apparente ovvietà e quasi banalità di contenuto, prevedibile quanto prevista ed attesa.
Solo oggi, a mente fresca, tanto per usare un altro luogo comune, ho scoperto, ho compreso la ragione, la logica di quel sottile fastidio, di quell' impalpabile disagio che ho provato e continuo a provare di fronte alle "innocenti" sue parole di domenica e che riporto integralmente per chi non le rammentasse:" Il vero nemico da temere e combattere è il peccato, il male spirituale, che a volte, purtroppo, contagia anche i membri della Chiesa. Viviamo nel mondo, ma non siamo del mondo, anche se dobbiamo guardarci dalle sue seduzioni. Dobbiamo invece temere il peccato e per questo essere fortemente radicati in Dio, solidali nel bene, nell'amore e nel servizio. E' quello che la Chiesa e i suoi ministri, unitamente ai fedeli, hanno fatto e continuano a fare con fervido impegno per il bene spirituale e materiale delle persone in ogni parte del mondo.....Proseguiamo insieme, con fiducia questo cammino, e le prove, che il Signore permette, ci spingano a maggiore radicalità e coerenza.".
"Voilà il gioco è fatto" direbbe un provetto prestigiatore, o illusionista come si sarebbe chiamato nell'ottocento, di fronte ad una platea gremita di allibiti e stupefatti spettatori rapiti dai rapidi gesti dell'artefice del giuoco di prestigio, che avrebbe fatto miracolosamente sparire, volatilizzare un oggetto fino ad allora presente e visibilissimo, concreto e indiscutibile nella sua materialità.
Con la stessa maestria, il Papa nel suo discorso ha operato un giuoco di prestigio ben più difficile ed affascinante adoperando la ben più ardua e complessa, sottile arte delle parole a confronto con quella dei gesti, arte delle parole che la Chesa ha esercitato ed affinato in più di duemila anni di pratica del potere.
In un attimo infatti, di fronte ad una platea rapita ed attonita, osannante ed adorante il Santo Padre, con un abile quanto sottile discorso, ha fatto il miracolo, di far scomparire improvvisamente e mirabilmente le colpe e le responsabilità personali dei sacerdoti rei di essersi macchiati del crimine più abietto e riprovevole per chi si arroga il diritto di educare, di indicarci la strada, di assolvere e perdonare, o di condannare i fedeli, ossia il crimine della pedofilia, ai danni di bambini ed adolescenti loro affidati e con esso le colpe e le responsabilità di coloro che sapendo hanno taciuto e coperto, per difendere e proteggere il buon nome della Chiesa.
Come è potuto avvenire tutto questo? Semplice e d elementare.
Nel discorso del Papa sono scomparse le responsabilità personali e le colpe gravissime dei singoli sacerdoti, sostituite dal "peccato" in generale, entità astratta, incorporea, ineffabile, che permea e pervade l'umanità intera e che a mo' di virus di una temibilissima epidemia, contagia tutti gli uomini e tra questi anche, purtroppo, talvolta i membri della Chiesa.
Dai miei ricordi degli studi di Medicina, mi sembra di rammentare che il contagio per opera di un agente patogeno, avvenga nei confronti di una vittima che passivamente, involontariamente lo riceve, lo subisce, ammalandosi e non piuttosto con una attiva e volenterosa partecipazione di un artefice, che lungi dal subirlo, lo agisce e lo esercita, facendo egli invece delle vittime innocenti.
Analogamente mi sembra che i sacerdoti pedofili e coloro che in seno alla stessa Chiesa li hanno protetti e coperti, si siano attivamente prodigati ed affaccendati alacremente per essere contagiati da questo virus del "peccato", per usare le parole del Papa, così diffuso nella umanità intera e anche in quegli ambienti che, arrogandosi il compito di curare le anime, dovrebbero esserne immuni.
Così, con un'abile e sottile manovra dialettica il Papa ha trasformato i volenterosi colpevoli di pedofilia, da consapevoli e coscienti peccatori, in vittime anche esse del contagio, da parte del misterioso morbo denominato "peccato", privandoli d'un sol colpo di ogni responsabilità e colpevolezza, capovolgendo il loro ruolo da quello di artefici, in quello di vittime.
Non contento di questo però, il Santo Padre, con un brillante guizzo di ingegno, nell'ultimo passo delle sue parole, sopra riportate , ha anche trasformato le precise e ingenti, incontestabili e inconfutabili responsabilità della Chiesa, per opera dei suoi membri e dei suoi rappresentanti, in "prove che il Signore permette", e che quindi il Signore propone alla Sua Chiesa per spingerla a "maggiore radicalità e coerenza", citando le parole testuali del Papa.
Mi chiedo a questo punto se le vittime innocenti dei preti pedofili e dei loro consapevoli
protettori siano felici e soddisfatte, orgogliose di essere ritenute dal Papa inconsapevoli e involontarie "prove", che il Signore utilizza per stimolare la Sua Chiesa a "maggiore radicalità e coerenza".
Domenico Mazzullo