sabato 23 gennaio 2010

Addio Casper


Addio Casper. Anche Tu sei giunto al Tuo capolinea.
Può sembrar strano che in un momento in cui tutto il mondo si prodiga, in una disperata gara di solidarietà per aiutare la popolazione di Haiti, vittima del terremoto, ci si possa contemporaneamente commuovere per la vicenda di un gatto, di un animale, seppure domestico.
E' quanto è avvenuto a me, leggendo su un giornale la notizia, apparentemente banale, della morte di un gatto, di Casper appunto, avvenuta per giunta in una città molto lontana, in Inghilterra, Plymouth nella contea del Devon.
Ma Casper non era un animale qualunque, non era un gatto qualunque, come non lo è nessun gatto, nessun animale, per chi ama gli animali.
Casper amava gli autobus, o meglio un autobus specifico, quello della linea 3 della sua città.
Casper era un gatto di casa, viveva presso una tranquilla e serena famiglia inglese che lo viziava anche con i deliziosi biscotti di cui andava ghiotto, ma lo spiritò di Libertà, di Democrazia e di Rispetto, da secoli radicato in Gran Bretagna, faceva sì che i padroni di Casper non gli impedissero mai di lasciare la casa, a suo piacimento, e di farvi ritorno sempre.
Si poteva star tranquilli perchè Casper era un gatto abitudinario; usciva sempre alla stessa ora ed approssimativamente, sempre alla stessa ora, faceva ritorno a casa. Si assentava per mai più di quattro ore. E questo è avvenuto tutti i giorni, per quattro anni.
Pur rispettosa della intimità del suo gatto, un giorno la sua padrona, cedendo alla curiosità tipicamente femminile e non più comprimibile, ha deciso di seguirlo senza essere vista e senza destare sospetti.
Ha visto Casper recarsi alla fermata dell'autobus della linea 3, vicinissima a casa, attendere pazientemente e compostamente in fila, l'arrivo della vettura e al suo giungere, salire assieme agli altri passeggeri, sull'autobus. Unica differenza, Casper non ha fatto il biglietto.
La padrona lo ha seguito in autobus, naturalmente senza farsi scoprire per non metterlo in imbarazzo e ha scoperto, non senza stupore, che Casper era conosciutissimo presso i passeggeri abituali e naturalmente il conducente, che gli riservavano calorosissime accoglienze, cedendogli addirittura il posto a lui riservato, se questo era stato, inavvertitamente occupato.
Dopo aver compiuto l'intero tragitto, profondendo a tutti il calore della sua sorniona simpatia, Casper scendeva esattamente alla stessa fermata da cui era salito e faceva ritorno, contento e soddisfatto a casa.
Tutto ciò è avvenuto regolarmente, ininterrottamente, assiduamente per quattro lunghi anni, Estate e Inverno, con il caldo e con il gelo, col sole o con la pioggia, sempre, con reciproca, visibile, palpabile soddisfazione da parte di tutti.
Ma un giorno, un triste giorno, Casper è giunto al suo definitivo capolinea, quello che il destino aveva riservato per Lui.
Era appena sceso dall'autobus, alla solita fermata vicino casa, e stava trotterellando verso la pappa che lo attendeva, quando un'auto pirata lo ha investito alle spalle, uccidendolo.
Il conducente non si è neppure fermato.
Addio Casper che amavi gli autobus.
"Ciao Casper"- gli ha scritto Chris, il capo degli autisti - "Lo so, Ti ho perso, ma un giorno guiderò per Te in cielo".
Domenico Mazzullo

sabato 2 gennaio 2010

Hachiko



Amo disperatamente il cinema da quando, bambino, non ero ancora in grado di leggere, ma da quando ho imparato, a scuola, alle elementari a leggere e scrivere, mi guardo bene dal leggere le recensioni dei critici cinematografici, riguardo ai film che intendo vedere, prima di vederli, ma se riesco a trovarle, mi documento solo sulle trame dei film stessi, per valutare e scegliere i film di mio interesse.

Raramente leggo le recensioni, dopo aver visto il film e quasi sempre mi trovo in disaccordo con i critici che le hanno prodotte, costretto spesso a dubitare che gli autori di tali critiche abbiano realmente visto lo stesso film che ho visto io, indignandomi perchè loro sono pagati per vedere i film che io invece pago per vedere.

Uso questo metodo, rigorosamente e con convinzione, essendosi esso validato con anni ed anni di frequentazione assidua e disperatissima delle sale cinematografiche, ove i film proiettati in esse hanno rallegrato e rischiarato una infanzia ed una adolescenza, non proprio felice, pur senza essere propriamente tragica, ma soprattutto e certamente mi hanno insegnato a vivere, mi hanno insegnato a provare emozioni, sentimenti, passioni, mi hanno insegnato molto chiaramente ed esplicitamente cosa sia il senso del dovere e la soddisfazione ineffabile che si prova nell'averlo compiuto o meglio nell'aver cercato di compierlo, mi hanno insegnato il senso dell'onore, della fedeltà ad un ideale, del rispetto degli altri e di noi stessi, del rispetto anche dei sentimenti degli altri e delle loro opinioni, anche e soprattutto se discordanti dalle mie.
Mi hanno insegnato ad amare la Storia, fatta non di eventi e date successive, ma di uomini come me con le loro passioni, dubbi, incertezze, miserie e nobiltà, viltà, ma anche coraggio e abnegazione.
Mi hanno mostrato, illustrato, insegnato le mille sfaccettature, le molteplici espressioni dell'animo umano e continuano ad insegnarle ancora, a me non più adolescente, ma psichiatra di età matura, come e forse di più di tanti dotti testi e volumi della mia materia.
Non tutti i film, naturalmente, ma molti certamente e per questo continuo ad andare al cinema, per questo considero ancora il cinema, non come un semplice svago ed una occasione di divertimento e pausa dal lavoro, ma come una scuola di vita e di umanità.
Per questo ancora avantieri sono andato al cinema, intenzionalmente per vedere un film di cui molto avevo sentito parlare già da prima che uscisse sugli schermi.
Faccio specifico riferimento al film "Hachiko" del regista Lasse Hallstrom che vede come coprotagonista sulla scena il famoso attore Richard Gere.
Coprotagonista, perchè il vero e assoluto protagonista è un cane, Hachiko appunto, meraviglioso esemplare della razza giapponese Hakita.
Ma forse il vero protagonista del film non è l'uomo e neppure il cane, ma il meraviglioso, struggente sentimento che lega i due indissolubilmente, un sentimento che non si scioglie, che non si spezza, non si interrompe neppure quando la morte interrompe la vita di uno dei due, l'uomo, e il cane Hachiko, fedele a questo sentimento, per ben dieci lunghi anni, ogni giorno, si reca alla stazione per attendere che il suo padrone si decida a tornare, a scendere da quel treno che ogni giorno ad ora fissa lo riportava da lui, per ricongiungere quel connubio meraviglioso, che neppure la morte è stata capace di sciogliere, ma che dopo dieci lunghi anni di attesa, la stessa morte del cane ricostituirà, permettendo a quest'ultimo di raggiungere finalmente il proprio padrone in un mondo migliore ove mai più nessuno sarà capace di separarli.
Tutta qui la storia, semplice, elementare, pulita, naturale, ma vera, assolutamente vera accaduta in Giappone, agli inizi del secolo scorso, ove una statua alla stazione ricorda e ricorderà sempre, a chi sarà capace e avrà voglia di comprenderla, la straordinaria, sovrumana, ma profondamente vera fedeltà e amore che lega il cane all'uomo.
Solo chi ha la fortuna, la sorte, il privilegio di aver vicino, o aver avuto vicino un cane, può comprenderla appieno.
Ma anche chi di questo privilegio non gode, o forse non vuole godere può avvicinarsi a comprenderla, può godere di questo sentimento, può commuoversi di fronte a questo meraviglioso sentimento, per lo più a noi umani sconosciuto.
Quando il film è terminato, quando le luci in sala si sono riaccese, gli occhi di tutti, bambini, giovani, adulti maturi, uomini e donne erano rossi di commozione e anche i miei naturalmente e delle persone che erano con me.
Mentre le persone compostamente e lentamente uscivano dalla sala, nessuno aveva il coraggio, il desiderio di parlare, di commentare, di profferir parola, per non sciupare, arguisco, per non contaminare l'atmosfera di emozione e di commozione che il film aveva suscitato e lasciato entro di loro.
Ma forse, uno solo degli spettatori non si è commosso, uno solo, se ha visto il film in qualche sala, uno solo che ha visto il film per lavoro e non perchè richiamato da un legittimo desiderio, ossia il "critico cinematografico" Paolo d'Agostino, che ha commentato il film sulla pagina di ieri, 2 Gennaio 2010, del quotidiano "La Repubblica".
A Paolo d'Agostino il film non è piaciuto, è evidente e chiaramente deducibile dalle sue parole e su questo non ho nulla da dire, è una sua libertà che rispetto, ma che non condivido.
Ma ciò che non rispetto e non condivido è l'aria di superba superiorità, di sussiegoso ed altezzoso distacco con il quale il nostro critico ironizza sul film considerato "una manieristica favola e lacrimoso apologo sulla fedeltà e sull'amore".
Forse il pessimista e disincantato critico ritiene che questi sentimenti siano inesistenti, sorpassati, anacronistici, superflui, ingenui, inutili nella nostra società così moderna e progredita?
Forse non sono politicamente corretti?
Forse non sono abbastanza culturalmente elevati e sufficientemente "di sinistra" per il dotto pubblico dei suoi lettori?
Domenico Mazzullo