mercoledì 1 settembre 2010

Levitas et gravitas

Ho sempre ammirato, fin dai tempi del liceo la capacità, dote rara, della lingua latina, di riuscire a sintetizzare, in una sola parola, un concetto spesso complesso che nella traduzione che eravamo costretti a fare, in italiano, nelle odiate versioni in classe, richiedeva una lunga e difficile circonlocuzione, per lo più non esattamente corrispondente al concetto così chiaro nella lingua dei Romani.
Sono sempre stato affascinato dalle parole levitas e gravitas, che nella traduzione letterale corrisponderebbero ai termini di leggerezza e pesantezza, ma che, applicati alla vita, esprimono e racchiudono concetti ben più profondi, attribuendosi il primo ad una modalità di interpretare la vita stessa e di viverla con leggerezza, che non vuol dire superficialità, ed il secondo a serietà, profondità, che non vuol dire pessimismo.
Mi sono sempre identificato con il secondo sentendolo a me più congeniale.
Ma al di fuori e al di sopra di considerazioni personali i Romani avevano evidentemente ben chiara la differenza tra i due concetti e conseguentemente tra i due reciproci territori di attribuzione e di interesse.
Noi che il latino non lo parliamo più e forse proprio per questo, o anche per questo, viviamo in una perenne e continua confusione, non solo linguistica, ma soprattutto concettuale, abbiamo naturalmente perso anche il senso di questi due concetti ed il significato ad essi connesso mescolando proditoriamente tra loro elementi appartenenti di diritto alla "gravitas" con elementi invece da attribuirsi alla "levitas".
Questo lungo preambolo per rimarcare e constatare ancora una volta, come con imperitura, pedissequa monotonia, ogni anno, puntualmente alla fine della Estate e al termine delle cosiddette vacanze che a questa consegue, si sia inondati e sommersi, in tutti i mezzi di comunicazione, radio, televisione, carta stampata, da una valanga inarrestabile di consigli, di ricette e di rimedi per superare lo "stress del rientro" ed il trauma orribile della "fine vacanza", patologia che ogni volta si ripete e si ripresenta, con puntuale e sconcertante precisione ogni anno, di questi tempi, analogamente alla epidemia di varicella in primavera.
Quest'anno però nei testi di psichiatria degli USA è comparsa per la prima volta ed è stata clinicamente identificata una ben precisa patologia denominata vacation blues che in italiano potrebbe essere tradotta con il meno romantico ed evocativo termine di "depressione da vacanze".
Con grande, immensa soddisfazione finalmente è stato dato un nome ed una causa scientifica, ad un malessere, ad una condizione esistenziale, che tutti abbiamo vissuto e subìto su di noi, entro di noi, dai tempi di scuola, quando il primo di ottobre, con crudele puntualità ricominciava la scuola e con questa data si sanciva la fine delle vacanze estive.
La scuola finisce, ma le vacanze rimangono e con esse il dolore, la disperazione, la depressione alla loro fine connesse.
Ierimattina alla radio, in una trasmissione molto seguita ed ascoltata, un illustre collega psichiatra ha fornito, per la prima volta la risultante di studi approfonditi e moderni sull'argomento, che avrebbero individuato la causa biologica, il substrato biologico di tale sindrome di fine vacanze, fino ad ora descritta solo clinicamente, substrato biologico che farebbe capo, guarda la combinazione, ai cosiddetti "ormoni dello stress" secreti dalle ghiandole surrenali e già ben conosciuti in altre occasioni di stress.
Ora che ne conosciamo anche la biologia, tale pericolosa patologia ci incute un poco meno paura, ma con tutto il rispetto dovuto a questi studi scientifici e alla serietà di chi li ha condotti e portati a termine, ci sembra, sempre con rispetto, "la scoperta dell'acqua calda", altrimenti detta "della rotondità della palla"o "della umidità dell'acqua".
Ma per fortuna alla identificazione, finalmente, della malattia e della sua causa biologica, corrisponde anche una possibilità di terapia, cosa che non sempre è possibile per altre patologie anche più semplici.
Gli stessi studi scientifici suggeriscono infatti, per bocca dello stesso psichiatra, come rimedio sovrano per questa "vacation blues", ci piace ora chiamarla così perchè più esotico e rievocativo di depressione da vacanze, una terapia unica e risolutiva, efficace in un ben 90% di casi di pazienti affetti, consistente in una metodica complessa di progressiva, lenta, graduale ripresa delle abitudini e dei ritmi lavorativi, con modalità che variano da caso a caso, ma che sempre sono accomunate da questo denominatore comune di gradualità e lenta progressione nel riaccostarsi al "travaglio usato" per dirla leopardianamente.
Siamo grati, come sempre, alla Scienza per averci fornito questo rimedio e per averci dotato di questo mezzo atto a liberarci di una sofferenza così diffusa e che sempre ha afflitto l'Umanità intera, da quando sono nate le vacanze.
Ma senza nulla togliere alla validità degli studi moderni, mi torna alla mente, con gratitudine e nostalgia, quella abitudine, meglio detto quel rito, messo in atto da mia mamma, quando mi trovavo ad uscire da una casa riscaldata, in inverno e mi vedevo costretto ad espormi brutalmente ed improvvisamente ai rigori del freddo esterno, rito consistente nella pratica imprescindibile di sostare per almeno cinque minuti all'interno dell'atrio prospiciente allo esterno, con la sciarpa di lana ben avvolta davanti alla bocca, per prendere la cosiddetta "mezz'aria.
Quanta inutilità, ma quanta dolce nostalgia in questi proustiani ricordi.
Ma visto che siamo in tema di nostalgici ricordi, mi sia concesso di rammentare un altro episodio del mio passato, in tema di vacanze che finiscono inevitabilmente e che riguarda, si riferisce al mio Maestro, un chirurgo Che mi ha insegnato cose indispensabili nella vita, come solo un padre sa fare.
Era il giorno di Ferragosto di molti anni fa e Lui non era in vacanza, non le faceva mai.
Al letto di un malato, in ospedale, a me allora studente, stava insegnando e mostrando, con le Sue mani che guidavano le mie, mi commuovo ancora nel ricordarlo, come palpare l'addome di un paziente.
In questo caso si trattava, purtroppo, di un paziente affetto da un tumore del colon che sarebbe stato operato da lui il giorno seguente.
Un poco più indietro due giovani medici del reparto, gioiosamente ed orgogliosamente abbronzati e prestanti, per nulla attenti e colpiti da quanto stesse avvenendo poco lontano da loro, si confidavano le esperienze delle reciproche vacanze.
Terminata la visita e la lezione di Medicina, il mio Maestro mi impartì una altrettanto, se non più importante lezione di vita, che non dimenticherò mai: con aria gentile, ma con quel distacco che, per me che Lo conoscevo bene, rappresentava i sensi del più profondo fastidio e disappunto, rivolgendosi ai due giovani medici disse loro con tono pacato: "Colleghi, qui ci sono persone che in vacanza non sono andate e forse non andranno mai più. Se proprio dovete parlare delle vostre vacanze, forse è meglio che vi accomodate fuori". E poi rivolto a me e solo a me proseguì, con aria malinconica:" e questo è il motivo per cui io non vado in vacanza, mai".
Forse il dottor Summa, così si chiamava il mio Maestro, molto prima degli ultimissimi studi in tema di "vacation blues" e delle sue connotazioni biologiche aveva intuito e compreso la terapia opportuna per questa sconvolgente patologia. E tale terapia ha insegnato anche a me.
Domenico Mazzullo
d.mazzullo@tiscali.it
www.studiomazzullo.com

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