martedì 30 novembre 2010

La Grande Guerra


Il mondo del Cinema è in lutto. Il mondo della Cultura è in lutto. Il mondo di tutti noi che amiamo entrambi è in lutto per la morte di un Grande, Mario Monicelli Che ha finito di combattere la Sua personale, eroica Grande Guerra, quella Grande Guerra che ha voluto immortalare ed onorare in un mirabile film, uno dei tanti che ha realizzato, ma quello che a me è più caro e che sempre mi emoziona e mi commuove ogni volta che lo rivedo, ogni volta che rivedendolo, scopro in esso un messaggio sempre nuovo e che la volta precedente mi era rimasto nascosto.
Nella tradizione ebraica, quando una persona cara muore, in segno di lutto ci si toglie le scarpe.
Il perchè me lo spiegò un mio amico ebreo che venne a trovarmi quando morì mio padre:
"Nei tempi lontani, possedere le scarpe era un segno di ricchezza e quando muore una persona cara diventiamo improvvisamente tutti più poveri.".
Ecco, io credo che ora dovremmo tutti toglierci le scarpe in segno di lutto perchè siamo diventati tutti più poveri per la mancanza di una Persona Che ci ha lasciato, ma Che per nostra fortuna ci ha lasciato le Sue Opere, la Sua testimonianza, la Sua eredità, che ci rende tutti un poco meno poveri.
Mario Monicelli si è suicidato, gettandosi giù da una finestra dell'Ospedale S. Giovanni di Roma, ove era ricoverato perchè affetto da un "male incurabile" come si legge nei necrologi.
Non ha atteso che la morte inevitabile, giungesse a rapirlo secondo i suoi tempi, non ha atteso che la Nera Signora, in agguato dietro la porta, scegliesse Lei il momento giusto per portarlo via.
Ha voluto Lui decidere tempi e modi, ha voluto Lui decidere come morire, avendo deciso come vivere.
In una intervista che ascoltai qualche tempo addietro disse lucidamente, ricordo perfettamente le parole:"Ho sempre deciso come vivere, voglio decidere come morire". Quando la vita non è più degna di essere vissuta è giusto abbandonarla".
Lo ha fatto.
Fedele al Suo pensiero, quando ha ritenuto che la Sua vita non fosse più degna di essere vissuta, l'ha interrotta volontariamente e per scelta, aggiungendo il Suo nome a quello di tanti altri che in piena coscienza e in piena consapevolezza, hanno fatto la medesima scelta, di libertà, io ritengo e sono convinto.
Ho precisato e sottolineo, in piena coscienza e in piena consapevolezza, in quanto, proprio come psichiatra lotto quotidianamente contro il suicidio di pazienti affetti da depressione, più frequentemente, ma anche da altre patologie, i quali tentano o a volte mettono in atto un suicidio, determinato non da una libera e consapevole scelta, ma piuttosto dalla sofferenza indicibile provocata dalla malattia, sofferenza che però è, e questo rende drammatico il suicidio, curabile, guaribile, sopprimibile, assolutamente temporanea.
Ben diverso è il caso di chi, non affetto da tali malattie psichiche che offuscano la coscienza, ma in piena integrità psichica, decide che è giunto per lui il momento di congedarsi dal mondo
perchè la sua vita non è più degna di essere vissuta.
E', a mio modesto parere, l'estremo atto di libertà lasciato all'uomo che, non libero di scegliere se nascere, almeno è libero di scegliere di morire.
Se non le abbiamo lette a scuola, leggiamo o rileggiamo le meravigliose pagine dei "Dialoghi" di Seneca, o dei "Dialoghi" di Platone, o dei "Ricordi" di Marco Aurelio, ove molto molto molto meglio di quanto io sia capace, Loro timidissimo e iniquo allievo, sono espressi questi concetti di libertà umana.
Mario Monicelli ha avuto in dono dalla sorte, la possibilità, la libertà di porre in atto questa Sua determinazione. La considero una fortuna, un regalo della vita.
Ad Altri, meno fortunati, questa stessa fortuna è stata negata dalla malattia, o da altre circostanze negative.
Io egoisticamente spero e mi auguro con tutto il cuore che, se mi trovassi in circostanze analoghe, questa fortuna non mi venisse negata.
Addio Mario Monicelli, Ti ringrazio per questa ultima lezione di vita che, morendo come Tu hai voluto, ci hai lasciato. Grazie.
Domenico Mazzullo

giovedì 25 novembre 2010

Finocchi


" Finocchi".
Finocchi è il termine dispregiativo, uno dei tanti, con cui, soprattutto nella mia Roma vengono appellate le persone omosessuali, ma forse pochi sanno a cosa sia da attribuirsi questo termine.
In tempi nemmeno tanto lontani, la Chiesa usava mandare al rogo gli omosessuali, rei di essere "contro natura", ma benevolmente attenta al piacere e al godimento di coloro i quali assistevano a questi spettacoli edificanti e per non disturbare il loro olfatto, con il nauseabondo odore di carne umana bruciata, assieme alle fascine di legna cui veniva appiccato il fuoco purificatore, venivano aggiunti dei finocchi, affinchè bruciando, coprissero con il loro profumo il nauseabondo olezzo che si sprigionava dai roghi.
Ora i roghi non ci sono più, i finocchi, quelli veri, vengono consumati in tavola, ma l'atteggiamento della Chiesa non è per nulla cambiato nei confronti delle persone omosessuali.
A ribadire questo concetto sono giunte le ultimissime affermazioni del nostro Papa nel suo libro-intervista "Luce del mondo", già oggetto della nostra attenzione a proposito di preservativi e del loro uso consentito in casi assolutamente eccezionali.
Il Papa-pensiero in tema di omosessualità può essere così riassunto ed esplicitato: Le persone omosessuali vanno rispettate e non devono essere discriminate, ma l'omosessualità rimane qualcosa che è contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto e non è nemmeno conciliabile con il sacerdozio.
Pochi chiari, lapidari concetti che non lasciano adito a dubbi e non aprono alcuno spiraglio ad una sana discussione. Ipse dixit.
Ma per non dare adito a dubbi di una cattiva interpretazione, o peggio di una interpretazione partigiana e vittima di pregiudizio, mi permetto di riportare integralmente, tra virgolette, le parole del Santo Padre:
"Un conto è il fatto che sono persone con i loro problemi e le loro gioie e alle quali, in quanto persone è dovuto rispetto, persone che non devono essere discriminate, perchè presentano quelle tendenze.
Il rispetto per la persona è assolutamente fondamentale e decisivo.
E tuttavia il senso profondo della sessualità è un altro.
Si potrebbe dire, volendosi esprimere in questi termini, che l'evoluzione ha generato la sessualità, al fine della riproduzione.
Questo vale anche dal punto di vista teologico. Il senso della sessualità è condurre l'uomo e la donna, l'uno all'altra e con ciò assicurare all'umanità progenie, bambini, futuro.
Tutto il resto è contro il senso più profondo della sessualità. Ed a questo dobbiamo restare fedeli anche se al nostro tempo non piace. Si tratta della profonda verità di ciò che la sessualità significa nella struttura dell'essere umano.
Se qualcuno presenta delle tendenze omosessuali profondamente radicate, se in ogni caso queste tendenze hanno un certo potere su quella data persona, allora questa è per lui una grande prova, così come una persona può dover sopportare altre prove.
Ma non per questo l'omosessualità diviene moralmente giusta, bensì rimane qualcosa che è contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto".
L'omosessualità non è conciliabile con il ministero sacerdotale perchè altrimenti anche il celibato come rinuncia non ha alcun senso. Sarebbe un grande pericolo se il celibato divenisse motivo per avviare al sacerdozio persone che in ogni caso non desiderano sposarsi, perchè in fin dei conti anche il loro atteggiamento, nei confronti di uomo e donna è in qualche modo alterato.".
Mi si perdoni la licenza di aver voluto riportare integralmente i brani più salienti del discorso del Papa, ma solo una lettura integrale può, a mio parere, renderci ragione di alcuni concetti che non sono una mia interpretazione, ma un dato oggettivo.
In primis il Papa, dietro una benevola accondiscendenza verso persone, che debbono essere rispettate in quanto persone (ma perchè non dovrebbero?) dimentica o tralascia opportunamente di ricordare, che proprio la Chiesa di cui ora è a capo, non ha rispettato queste persone, mandandole al rogo, assieme agli eretici, le streghe, a chi voleva semplicemente esercitare il proprio libero pensiero.
Ma è acqua passata, di cui non occorre far menzione.
Dietro però questa, solo apparente, magnanimità si rivela un atteggiamento fortemente e rigidamente omofobo cui la Chiesa non ha mai rinunciato e le parole del suo capo ne sono l'esempio.
Fatto salvo il discorso sul rispetto delle persone omosessuali, per il quale siamo d'accordo, dobbiamo essere d'accordo, il pensiero del Papa, si complica, a mio parere, nelle parti successive, sul piano della coerenza logica, non conosco quella teologica ,nella quale si dice il Papa essere un grande esperto e studioso.
Se infatti, come il Papa sostiene, è vero che "l'evoluzione ha generato la sessualità al fine della riproduzione e che il senso della sessualità è condurre l'uomo e la donna l'uno all'altra e con ciò assicurare alla umanità progenie,bambini, futuro", se è vero, come sempre il Papa asserisce, che "se qualcuno presenta delle tendenze omosessuali profondamente radicate, se in ogni caso queste tendenze hanno un certo potere su quella data persona, allora questa è per lui una grande prova, così come una persona può dover sopportare altre prove", allora sono logicamente obbligato a dedurre, che queste tendenze omosessuali, in quanto una grande prova cui sono sottoposto, non sono una mia libera scelta di cui sono artefice e responsabile, ma una jattura che mi è capitata tra capo e collo, una disgrazia, uno scherzo del destino.
Allora il Papa mi deve logicamente dimostrare e spiegare il senso della sua successiva affermazione:"Ma non per questo l'omosessualità diviene moralmente giusta, bensì rimane qualcosa che è contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto".
Se l'omosessualità è una grande prova che mi è toccato dover sopportare e quindi non ne sono responsabile, allora perchè la mia omosessualità non può divenire moralmente giusta?
E ancora, se l'omosessualità "rimane qualcosa che è contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto", allora mi permetterei di chiedere ancora al Papa, che evidentemente, a suo dire, conosce molto bene la volontà di Dio, se a suo parere l'omosessualità in questione sia da attribuirsi ad una svista, ad un attimo di distrazione di Dio, ad un involontario errore di esecuzione, o di costruzione, per cui il prodotto è risultato infine diverso dal progetto originario.
Ancora più tortuoso e logicamente incomprensibile, appare il discorso del Santo Padre a proposito di omosessualità e sacerdozio. Il Papa infatti afferma: "L'omosessualità non è conciliabile con il ministero sacerdotale, perchè altrimenti anche il celibato come rinuncia non ha alcun senso".
In altre parole e se ho ben compreso per l'omosessuale che divenisse sacerdote, quella vocazione al celibato, ossia rinuncia al matrimonio con una donna, in realtà non costituirebbe una vera rinuncia in quanto omosessuale e quindi non desideroso di sposare una donna, quindi non vi sarebbe merito nella sua rinuncia.
Ragionamento capzioso e subdolo, degno di un uomo di chiesa, che non tiene però conto di un piccolo, insignificante particolare, ossia che la vocazione al celibato è da intendersi come vocazione alla rinuncia di una espressione attiva della propria sessualità e non del matrimonio.
Purtroppo non credo che il Papa scioglierà mai i miei dubbi rispondendo alle mie domande.
Domenico Mazzullo

domenica 21 novembre 2010

Contrordine Compagni


"Contrordine Compagni", rettifico, "Contrordine Cattolici". Con la stessa apodittica autorevolezza, con la quale venivano impartite le direttive del partito alla base e quindi il nuovo pensiero, obbligatorio per tutti, con la stessa autorevolezza, che gli deriva dalla sua infallibilità papale, infallibilità proclamata mutu proprio da Pio IX all'indomani della Breccia di Porta Pia, il Papa attuale Benedetto XVI, ha mutato opinione sul preservativo, alias profilattico fino ad oggi rigidamente proibito dalla Chiesa e solo l'anno scorso ritenuto dallo stesso Papa inutile, anzi addirittura pericoloso come mezzo di protezione e salvaguardia dalla infezione di AIDS.
Ricordiamo tutti l'eco di sdegnata protesta suscitata dalle parole del pontefice in occasione del suo viaggio in Africa, solo l'anno scorso, quando con scarsa attenzione diplomatica, ma soprattuto umana si espresse in questi termini.
Ma mutare opinione, quando lo riteniamo opportuno, è saggio, coraggioso ed è segno di grande levatura morale ed intelligenza.
Per questo salutiamo con entusiasmo e giubilo la grande apertura mostrata dal Papa ed espressa dalle sue parole a proposito di preservativo:
Dopo attenti e profondi studi scientifici e teologici, sappiamo infatti che il Papa è un grande conoscitore della scienza teologica, Benedetto XVI ha compiuto questa svolta epocale,tutta racchiusa in queste poche, scarne, semplici, illuminanti parole:"Concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità e questa banalizzzione rappresenta proprio la pericolosa ragione per cui tante e tante persone nella sessualità non vedono più l'espressione del loro amore, ma soltanto una sorta di droga, che si somministrano da sè. Vi possono essere singoli casi giustificati, ad esempi quando una prostituta utilizza un profilattico e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità, per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può fare tutto ciò che si vuole. Tuttavia questo non è il solo modo vero e proprio per vincere l'infezione dell'Hiv. E' veramente necessaria una umanizzazione della sessualità.".
Pur non essedo religioso, ringrazio il Papa per questa coraggiosa presa di posizione che segna una via nuova per la Chiesa in tema di sessualità e che scioglie i cattolici tutti da angosciosi dubbi e problemi morali, ma credo altresì di poter interpretare i segni e i sentimenti di filiale gratitudine da parte di tutte le prostitute così paternamente prese in considerazione dal Santo Padre attento alla loro salute, ma soprattutto a quella dei loro clienti.
Purtroppo, ma è un particolare irrilevante che certo può essere sfuggito ragionevolmente al Papa così impegnato, la trasmissione del virus Hiv è solo in minima parte dovuta a rapporti cosiddetti mercenari, mentre è legata per la maggior parte a rapporti occasionali e non solo, non protetti per ignoranza, per imprudenza, per sfida, soprattutto nei giovani, per povertà, come avviene nei paesi africani.
Rimane purtuttavia fermo e valido il concetto già espresso in Africa, che il profilattico, ma allora perchè ci si ostina a chiamarlo così, non rappresenta il modo per vincere l'infezione dello Hiv. Ma non si può mica avere tutto dalla vita....
E Papa Ratzinger veniva considerato un conservatore! La riabilitazione di Galileo Galilei risale solo a pochi anni addietro, quando Papa Giovanni Paolo II ha ufficialmente affermato che forse il grande scienziato aveva ragione e che tra Lui e la Chiesa si erano verificate alcune "incomprensioni" ora decisamente superate. In virtù di questo la Terra è ora libera di girare a tutto diritto attorno al Sole.
Forse le stesse"incomprensioni" si verificarono nei confronti di Giordano Bruno, dei tanti eretici mandati al rogo dalla Santa Inquisizione, degli omosessuali anche essi bruciati vivi, delle donne accusate di stregoneria. Ma è passato tanto tempo...
Gli Americani hanno perdonato i Giapponesi per Pearl Harbour, i Giapponesi hanno perdonato gli Americani per Hiroshima e Nagasaki e noi non vorremmo perdonare la Chiesa per fatti avvenuti tanto tempo addietro?
Domenico Mazzullo

domenica 14 novembre 2010

Un caso di coscienza


Abituati come siamo, a leggere nelle pagine dei giornali, o peggio vedere in televisione le notizie e le immagini, spesso raccapriccianti ed inutili di morti violente di uomini, per mano di altri uomini, ci sembra quasi che senza una o più morti, senza cadaveri in bella vista, per il macabro godimento degli spettatori, la notizia non sia una notizia, non sia degna di essere pubblicata e diffusa.
Per questo motivo sono stato oggi molto colpito, direi favorevolmente colpito, dal risalto che alcuni quotidiani, tra quelli che leggo, hanno dato ad un evento conclusosi senza morti e feriti, senza spargimento di sangue, ma che ci fa riflettere, che ci obbliga quasi a riflettere e a prendere posizione in quanto esseri umani appartenenti a questa comunità, ci impone di porre e di proporre alla nostra coscienza un quesito, un interrogativo un dubbio, che solo nel nostro intimo ed in solitudine con noi stessi, possiamo cercare di risolvere.
Il fatto è recente, ma non appartiene al nostro paese, così ahimè abituato a casi di malasanità che vedono medici indagati per inadempienze, per incompetenze, per fatali leggerezze nei confronti dei poveri pazienti, ma è avvenuto in Germania, a Padenborn una città della regione occidentale del Nord-Reno-Vestfalia.
In ospedale il paziente, un uomo di 36 anni era già stato anestetizzato. Ma quando il chirurgo che si apprestava ad eseguire l'intervento ha visto il tatuaggio che campeggiava su un bicipite (la classica aquila posata su una croce uncinata simbolo del nazismo) si è tirato indietro. Letteralmente. Si è tolto la mascherina dal viso, ha svestito il camice verde ed è uscito dalla sala operatoria, pregando un altro chirurgo presente di operare al posto suo il paziente.
All'esterno, in una sala d'attesa era seduta la moglie del paziente. Il quarantaseienne chirurgo le si è rivolto direttamente con poche, ma inequivocabili parole:"Io non opererò suo marito, signora, non posso, perchè sono ebreo, la mia coscienza non me lo permette.". L'altro chirurgo ha preso il suo posto, l'intervento è stato eseguito con esito felice, il paziente sta bene.
Seguiva l'articolo del giornale il commento di una giornalista, che leggo sempre, che stimo ed ammiro per il Suo coraggio e la Sua lucidità, Fiamma Nirenstein, di evidenti, come svela il Suo nome, origini ebraiche.
La giornalista, pur comprendendo le motivazioni del chirurgo e cogliendo in esse delle attenuanti, ne stigmatizzava l'operato intitolando l'articolo di commento " Ha sbagliato da medico e da ebreo. Salvare la vita viene prima di tutto" sintetizzando con queste parole il Suo pensiero poi diffusamente espresso.
Come medico, istintivamente e senza riflettere, mi sono sentito dapprima solidale con il pensiero della giornalista, così lucidamente e logicamente manifestato, ritenendo che il mio collega ebreo-tedesco fosse venuto meno a quanto per noi medici è sacro ed inviolabile, il Giuramento di Ippocrate che ci obbliga a prestare le nostre cure a chi ha bisogno del nostro operato, prescindendo da ogni altra valutazione di tipo personale, qualunque essa sia, senza se e senza ma.
E' estremo ed evidente, per esempio, il caso in cui, in guerra un medico è obbligato ad esercitare la propria opera di aiuto nei confronti di nemici, o amici, se si trovano in caso di necessità.
Altrettanto perentorio è l'imperativo categorico per ogni medico di prestare soccorso spontaneamente ed immediatamente a chi ne avesse bisogno e si trovasse in pericolo.
Fermo rimanendo tale inalienabile ed incontestabile principio, riflettendo però con calma e tempo necessario e liberandomi dalla emozione immediata che la lettura della vicenda ha in me suscitata, sono stato costretto a rivedere la mia posizione ribaltando completamente la mia deduzione.
In primis, nel caso in questione non si configurava la fattispecie di assoluta urgenza ed emergenza ed uno stato di necessità, essendo il paziente ricoverato in ospedale e soprattutto essendo un altro chirurgo in grado di intervenire al posto del medico che rinunciava ad operare e quindi a prendersi cura del paziente.
Ben diverso sarebbe stato il caso in cui il chirurgo ebreo fosse stato l'unico in grado di operare, o l'unico medico presente e disponibile, configurandosi in tale ipotetica circostanza uno stato di assoluta necessità, che assolutamente non avrebbe permesso al medico di sottrarsi al proprio dovere.
Ma la spiegazione dell'operato del chirurgo, che si è rifiutato di operare è tutta nelle sue stesse parole, nelle poche lapidarie parole che ha rivolto alla moglie del suo paziente:"Io non opererò suo marito, signora, non posso, perchè sono ebreo, la mia coscienza non me lo permette".
Attenzione, il medico non ha detto "non voglio", ma ha detto "non posso" e ha aggiunto "la mia coscienza non me lo permette". Quale coscienza? Di ebreo? Di medico? O ambedue?
La chiave di lettura dell'operato del medico è tutta in quel suo "non posso".
Ogni medico sa bene e deve sempre tener presente, che quando non si trova in una condizione di assoluta necessità, come ho specificato in precedenza, se le sue condizioni sia psichiche che fisiche non sono tali da poter offrire al paziente il meglio di se stesso ,o le sue capacità e competenze professionali non sono tali da farlo sentire adeguato al compito, deve, rinunciare ad esercitare la sua professione nei confronti del paziente.
In questo caso specifico non si trattava ovviamente di competenze professionali, essendo il medico un chirurgo pronto ad operare, quanto piuttosto di una situazione psichica ed emotiva, venutasi a creare, al momento della constatazione, per il medico ebreo, essere il suo paziente un neonazista.
Mi è facile immaginare come il medico possa essersi sentito non perfettamente libero ed esente da emozioni e turbamenti d'animo, da sentimenti comprensibili e facilmente immaginabili che avrebbero potuto renderlo, secondo la sua coscienza, non perfettamente lucido ed adeguato al delicato compito cui si accingeva e constatando questo, giustamente e doverosamente ,abbia rinunciato ad operare, affidando il paziente ad un altro chirurgo.
Ben diverso sarebbe stato il caso in cui, egli fosse stato l'unico chirurgo a poter operare.
In tale circostanza il medico, con tutti i suoi turbamenti, sarebbe stato costretto, dal suo dovere, ad operare.
Rovesciando le circostanze è lo stesso motivo per cui la maggior parte dei medici rinunciano o rifiutano di prendersi cura dei propri familiari, proprio perchè non si sentono liberi da coinvolgimenti affettivi nei loro confronti, che li renderebbero non obiettvi e lucidi nella diagnosi e nelle terapie eventuali.
Mi rendo conto che tutti questi possono, o potrebbero sembrare discorsi accademici e forse superflui, visto che tutto poi si è risolto positivamente. Forse lo sono, forse così penserà chi ha avuto la pazienza di leggermi fin qui, ma non per me, per me uomo e soprattutto medico, per il quale rappresentano una necessità, un motivo di riflessione, di approfondimento, di autocritica anche e naturalmente, di autocensura.
Ma una ultima riflessione mi viene fornita dall'episodio e va ad aggiungersi alle tante constatazioni, più volte fornitemi sull'argomento, dalla esperienza personale e professionale.
Spesso ed a me è accaduto, come dicevo anche in questa ultima circostanza, esprimiamo giudizi e valutazioni sulla scia di emozioni e passioni, di stati d'animo emotivi, giudizi che poi devono necessariamente non fermarsi lì, ma essere assolutamente sottoposti al vaglio ed alla critica serrata della nostra ragione, che spesso giunge ahimè a conclusioni diametralmente opposte alle prime formulate, creando entro di noi un conflitto difficile da risolvere tra sentimento e ragione.
Ma sentimento e ragione sono veramente due funzioni della nostra psiche l'una contro l'altra armate? E' mai possibile che entro di noi si sviluppi quotidianamente una lotta intestina tra le due? O non è forse più vero che entrambe le due funzioni siano necessarie alla nostra esistenza e si adoperino con modi, ma soprattutto tempi diversi, per condurci ad un giudizio sulla realtà che ci circonda?
Il sentimento infatti, inteso in senso lato, ci porta a conclusioni rapide, ma necessariamente imprecise.
La ragione, più lenta, ci permette di esprimere giudizi più tardivi, ma certamente più precisi e circostanziati.'
Uno ha quindi il vantaggio della velocità nelle conclusioni, l'altra di una maggiore precisione. Forse se riuscissimo ad usare entrambi gli strumenti, raggiungeremmo migliori risultati.
Mi piace concludere a questo proposito, con la frase di un grande psichiatra dei primi anni del secolo scorso, Kurt Schneider, Che considero il mio Maestro, pur essendo Lui scomparso quando io ero da poco nato, ma avendo studiato e spero compreso tutti i Suoi libri:
"Un uomo che fosse solo sentimento, non sarebbe ancora un uomo. Un uomo che fosse solo ragione, non sarebbe più un uomo".
Grazie per avermi letto fin qui.
Domenico Mazzullo
d.mazzullo@tiscali.it
www.studiomazzullo.com

martedì 9 novembre 2010

Giovani

Giovani

E’ ormai un luogo comune, accettato, collaudato e consumato dal tempo, il considerare i giovani una generazione in decadenza, già prima di raggiungere la maturità piena, età cui la decadenza, dovrebbe ahimè succedere fisiologicamente e si spera lentamente e senza dolore.
Credo e ho avuto modo di constatare come questo sia un concetto abituale in ogni epoca ed appannaggio proprio della generazione che giovane non è più e che vede la generazione che la segue e la incalza dappresso, come meno valida, meno preparata, meno culturalmente dotata, meno animata dalla solita “buona volontà” che ancora non ho compreso cosa sia ed ove sia.
Era un concetto che sentivo ripetere, quando ero ragazzo, dalle persone che erano sopra di me, come età, come meriti, come esperienza, come ruolo, come gerarchia e che ora mi trovo a sostenere anche io avendo raggiunto una età in cui certi concetti si esprimono per dovere generazionale, se non anche per convinzione ed esperienza vissuta.
Abituato come sono, per fortuna e spero di continuare ad esserlo sempre, a pormi in discussione, ad interrogarmi sulla validità di quanto penso ed affermo, di ciò in cui credo e confido, dei miei valori e delle mie idealità e fino a che ne sarò capace, ritengo di potermi ancora considerare giovane, ho più volte sottoposto al vaglio della mia stessa e personale critica serrata questo concetto, questa constatazione, questa convinzione, ossia che le nuove generazioni non siano migliori, sotto alcuni aspetti, di quelle precedenti, ma anzi, se possibile peggiori, o meno valide, meno preparate e meno adeguate ad affrontare le sfide e soprattutto i compiti che la vita stessa ci sottopone e ci offre gratuitamente.
Purtroppo il vaglio, come dicevo, della mia critica severa, ha sempre confermato questa sensazione, questa impressione, questa constatazione, facilitato in questo compito, dal mio essere uno psichiatra e quindi a contatto, per elezione e per passione, con le difficoltà esistenziali, non è il caso di chiamarle patologie, delle varie generazioni.
Non sono mai stato felice di questa acquisizione, anzi devo sinceramente dire che mi ha sempre profondamente rattristato ed addolorato, per due motivi, uno sociale e l’altro personale.
Il primo, più grave certamente, è presto spiegato ed immediatamente comprensibile: se una società è tale per cui le nuove generazioni, quelle alle quali deve inevitabilmente ed ineluttabilmente passare il “testimone” dalle mani di coloro i quali li hanno preceduti, non sono migliori, più preparate, più forti e più consapevoli, più mature, più adeguate di quelle precedenti che tale “testimone” devono lasciare, allora ineludibilmente quella società è in decadenza, decadenza tanto più vertiginosa quanto più evidente è il fenomeno peggiorativo, di generazione in generazione.
Il secondo motivo è più privato e personale, anche se certamente meno grave e coinvolgente per gli altri: se quando ero ragazzo ascoltavo con una certa sufficienza e noia questi discorsi sui tempi passati, sempre migliori, da parte dei grandi, che già consideravo vecchi e sorpassati e oggi li faccio e soprattutto li penso anche io, allora inappellabilmente devo dedurre che la età matura e forse la vecchiaia ha raggiunto anche me.
Tutto questo fino a ieri, quando come a San Paolo sulla via di Damasco mi si è parata davanti una consapevolezza nuova, inaspettata e felicemente rassicurante, che ha fugato in un sol colpo i miei tristi pensieri.
Ieri, per la terza volta ho partecipato, come ospite della trasmissione, allo spettacolo televisivo “Studio 254 Show” che gli allievi della Accademia di Cesare Lanza Studio 254 mettono in scena e che va in onda per la Gold TV Italia.
Conosco l’Accademia per averla vista nascere ed avervi insegnato, conosco i ragazzi per averli avuti come allievi di mie noiosissime lezioni, ma per la prima volta li vedevo all’opera tutti nella costruzione di un programma televisivo, sotto la guida, attenta, ma non ingombrante di Cesare Lanza.
Al termine del programma mi sono congedato da loro con una strana sensazione, con una particolare emozione, con un nuovo sapore in bocca che solo successivamente, con il trascorrere del tempo e nel chiuso di una ritrovata solitudine ho potuto appieno apprezzare, comprendere, razionalizzare, analizzare, concretizzare ed ora verbalizzare e trasmettere.
Ho provato il sapore dolce amaro di sentirmi smentito dai fatti, di verificare, di toccare con mano, di dover ammettere con umiltà, di aver sbagliato, di aver equivocato, di aver male letto ed interpretato, di aver mal compreso la realtà nelle mie fosche ed oscure, pessimistiche previsioni.
E la prova inconfutabile del mio errore valutativo era proprio lì davanti a me, chiara, evidente, immediatamente coglibile e visibile, ineludibile nella sua esplicita realtà.
La prova era proprio in quei ragazzi, in quegli allievi, in quelle Persone, appartenenti ad una generazione successiva alla mia, e che si impegnavano, che lottavano, che si appassionavano, che soffrivano nello sbagliare, che cercavano di imparare, che volevano conseguire un risultato, raggiungere un obiettivo, coronare un sogno, che volevano faticare per conseguirlo, che volevano sognare.
Non mi è stato tutto chiaro mentre ero con Loro, in mezzo a Loro.
Ho avuto bisogno di raccogliere i miei pensieri in solitudine, di ripensare e riordinare le emozioni provate, di rivedere sulla moviola della memoria i volti, le espressioni, le ansie, le paure, le sofferenze anche, di quei ragazzi che sognano e si impegnano per realizzare un sogno.
Solamente da solo ho potuto trarre le mie conclusioni, ho potuto raccogliere le emozioni e le sensazioni in un pensiero concluso e coerente, razionale e comunicabile.
E’ falso e solo per noi più maturi rassicurante e confortante pensare, credere, essere convinti che le nuove generazioni siano meno mature, meno volenterose, meno disposte al sacrificio di quanto lo siano state quelle precedenti.
Sono felice di poter ammettere di aver fino ad ora sbagliato.
Ieri ho visto una ragazza dell’Accademia piangere a calde lacrime, disperata, perché non riusciva a cantare bene una canzone, la sua canzone. Mi sono commosso. Mi ha commosso.
Penso e sono convinto che finché continueranno ad esistere ragazzi così il futuro dell’umanità è salvo ed assicurato.
Ringrazio Cesare Lanza che ha voluto e creato questa Accademia, ringrazio i ragazzi che la compongono per avermi fornito l’occasione di ricredermi, per avermi fornito l’opportunità di ammettere di aver sbagliato.

Domenico Mazzullo